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Così l’Italia non è riuscita ad integrare Rom e Sinti

Tempo di lettura stimato: 6 min.

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Dal tema della scuola a quello dell’accoglienza, dalla riforma della giustizia a quella del catasto, l’Italia è celebre per i suoi interminabili dibattiti politici che poi spesso vanno a finire in grandi annunci mediatici e in un nulla di fatto normativo. Tra le tematiche che più rispecchiano questo modus operandi vi è quella delle popolazioni Rom, Sinti e Caminanti (RSC), anche dette romaní, dal nome della lingua parlata. Questa piccola minoranza, tra i 130 e i 180 mila individui, pari allo 0,25% della popolazione italiana, ha per anni catalizzato un livello di attenzione mediatica e politica sproporzionato. In particolare, il tema dei “campi nomadi” è periodicamente riemerso come “un’emergenza”, nonostante per oltre trent’anni abbiano rappresentato la risposta istituzionale di default alla questione.

 

Benché attualmente il dibattito sul tema sembri assopito, surclassato da questioni come il Covid-19 prima e la guerra in Ucraina poi, dobbiamo ricordare che nel luglio 2018, all’inizio del governo Conte I, uno dei punti programmatici portati avanti da Matteo Salvini in qualità di Ministro dell’interno era stato un censimento su base etnica delle popolazioni Rom e Sinti. Ancora oggi, nonostante l’attenzione pubblica sembra essersi assopita, le questioni legate all’inclusione e alle condizioni di vita della popolazione RSC continuano. Con questo articolo proveremo a dare un quadro quanto più completo della situazione in Italia oggi, per poi portare l’esperienza della Spagna come esempio di integrazione. 

Rom e Sinti in Italia: cenni storici 

La storia dei Rom e Sinti in Italia inizia, come in altri Paesi nell’Europa Occidentale, verso l’inizio del 1400. Si pensa che queste popolazioni abbiano lasciato l’India settentrionale nell’11esimo secolo, in seguito alle invasioni musulmane, prima giungendo nell’Impero Bizantino e poi propagandosi in tutta l’Europa a partire dal 1300. Sempre in movimento a causa della xenofobia e della loro tendenza a voler mantenere una propria specificità culturale, il nomadismo diventò progressivamente una loro caratteristica. 

Nonostante le grandi difficoltà nell’avere dati precisi, oggi in Italia si possono riconoscere quattro principali gruppi di popolazioni RSC. Un primo gruppo, composto da circa 70mila persone, è quello presente in Italia da oltre 600 anni, ha cittadinanza italiana e si divide a sua volta in vari sottogruppi regionali che parlano diversi dialetti della lingua romaní. La restante parte delle popolazioni Rom e Sinti è invece di immigrazione più recente, in particolare risalente agli anni ’80 e ’90. Questi provengono principalmente dall’ex Jugoslavia e dalla Romania e, in parte minore, dalla Bulgaria. 

Le popolazioni romaní sono tra quelle maggiormente marginalizzate e discriminate in Italia. Secondo un sondaggio condotto dal Pew Research Center nel 2014, in Italia l’85% della popolazione avrebbe una visione negativa di Rom e Sinti. Questo supererebbe anche il livello di discriminazione ai danni delle persone musulmane, viste in maniera negativa “solo” dal 63% della popolazione secondo lo stesso sondaggio. Una rilevazione di Amnesty International sulla presenza di odio online durante la campagna elettorale delle elezioni europee del 2019 ha anche riportato quella dei Rom come una delle categorie maggiormente colpite da attacchi politici, vittime in vari casi di hate speech.

Tali aspetti hanno una ricaduta anche sulla condizione di sviluppo umano, in particolar modo dal punto di vista educativo. Un’ indagine nazionale su Rom e Sinti portata avanti dalla Fondazione Casa della Carità nel 2012 dipinge infatti un quadro piuttosto critico. Stando all’indagine, il 19% di Rom e Sinti sarebbe totalmente analfabeta e il 15% dei giovani sotto i 20 anni non avrebbe conseguito alcun titolo di studio. Ciò si riversa poi sulla capacità di inserirsi nel mondo del lavoro; a conferma di ciò, il tasso di occupazione dei Rom e Sinti si attesta di 10 punti percentuali al di sotto della media italiana.

Tuttavia, il problema non si presenta in modo uguale su tutta la popolazione. Quello che il rapporto sembra indicare è una forte mediazione della marginalità spaziale sul livello di integrazione sociale dovuto alla discussa politica dei cosiddetti “campi nomadi”. 

La questione dei campi per Rom e Sinti in Italia

Benché non sia l’unico Stato europeo ad avere “campi nomadi” sul proprio territorio, l’Italia è stata denominata in Europa “il Paese dei campi” in quanto sarebbe la nazione maggiormente impegnata nella politica dei villaggi etnici per le comunità Rom e Sinti. 

La situazione nei “campi nomadi”, che da anni è raccontata dall’Associazione 21 Luglio nei suoi rapporti annuali, è spesso tragica. Buona parte rientrerebbe nella definizione di “baraccopoli” adottata dalla UN-HABITAT, l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di abitare. Inoltre, tutti presentano delle caratteristiche abitative critiche, che determinano una violazione dei diritti umani di coloro che vi abitano. 

I campi sono spesso delimitati da recinzioni, e si collocano al di fuori del tessuto urbano, distanti dai servizi primari e in assenza di servizi di trasporto pubblico. Inoltre, presentano di frequente condizioni igienico-sanitarie critiche, con quasi il 30% degli insediamenti formali (e l’85% degli insediamenti informali) che non presenta un WC interno, oltre situazioni di grave disagio abitativo e sovraffollamento. 

A questo punto dobbiamo interrogarci sul perché si sia arrivati a questa situazione. Al contrario di quello che verrebbe naturale pensare, infatti, quella dei campi è stata una politica introdotta recentemente. In particolare, i primi campi emersero solo a partire dal 1984, quando diverse Regioni italiane, al fine di gestire la crescente immigrazione di popolazioni Rom dalla Jugoslavia, decisero di finanziare la costruzione di “riserve etniche” volte a “salvaguardare il patrimonio culturale e l’identità Rom”. Tutto ciò parte da un assunto di base, quello del nomadismo dei Rom, che oggi si rivela totalmente falso. 

Infatti, benché il nomadismo sia considerato nella concezione comune un tratto fondamentale della identità romaní, attualmente solo il 2-3% delle famiglie viaggiano in carovana, secondo i dati del Ministero dell’Interno. Il luogo comune del nomadismo in particolare ha contribuito enormemente alla discriminazione di Rom e Sinti in Italia, non solo tramite la politica dei campi, ma anche come motivazione dietro al mancato riconoscimento della lingua e della popolazione romaní come una minoranza secondo la legge 482 del 1999.

Oltre al mancato riconoscimento anche simbolico di Rom e Sinti quali minoranza, la politica dei campi comporta gravi conseguenze sociali. Come abbiamo anticipato prima, l’isolamento spaziale che comporta si traduce spesso in un isolamento sociale. Infatti, stando alle già citate rilevazioni di Casa della Carità, il 23% dei minori che vivono nei campi non è scolarizzato, mentre questo vale solo per il 7% di coloro che vivono in una casa. Tale fenomeno è causato, ad esempio, dalle difficoltà logistiche a cui i minori nei campi possono andare incontro per mantenere la frequenza scolastica. Per lo stesso motivo, è impressionante la rilevazione sul tasso di occupazione, che si attesta al 46% tra le persone che risiedono in una casa, mentre per coloro che alloggiano in campi irregolari la percentuale scende al 24%.

Proprio questa dedizione italiana alla politica dei campi, unita alla tendenza a sgomberare molti dei campi irregolari senza provvedere soluzioni abitative alternative, ha causato negli anni parecchi screzi con le istituzioni europee. Queste hanno, a più riprese, accusato l’Italia di violare i diritti umani di queste popolazioni, oltre a non rispettare gli impegni presi dal nostro Paese in occasione della pubblicazione della Strategia Nazionale di Inclusione di Rom, Sinti e Caminanti nel febbraio del 2012.

La Spagna: un esempio di integrazione per Rom e Sinti

Benché la situazione attuale sia estremamente negativa, sono in molti a vedere una possibilità di superare definitivamente il modello attuale di segregazione etnica. 

Ciò è dovuto principalmente alla progressiva diminuzione delle persone che risiedono in “campi nomadi”. Infatti, dal 2016 ad oggi, l’Associazione 21 Luglio ha individuato un crollo delle presenze in insediamenti formali e informali. In particolare, si è passati dai 28mila del 2016 ai 17.800 attuali, con una diminuzione del 36,5%. Secondo l’Associazione, questo sarebbe determinato dai percorsi di fuoriuscita autonomi delle nuove generazioni e dal desiderio di alcune famiglie ad abbandonare questi contesi di degrado insostenibile, spesso tramite l’occupazione di immobili pubblici o privati, ma anche tramite il ritorno al Paese d’origine, il trasferimento in altri Paesi europei o il reperimento di soluzioni abitative alternative in alloggi convenzionali.

Negli ultimi anni si è inoltre affermato un modello di politiche sensibili al bisogno di casa di Rom e Sinti che ha portato a risultati estremamente positivi. La Spagna ha infatti istituito una delle legislazioni più avanzate in Europa in merito, inaugurando nel 1989 un programma di sviluppo, che ha portato oggi la quasi della totalità dei gitanos spagnoli a vivere in case a norma, di cui una su due è di loro proprietà. Ciò ha avuto ricadute enormi su tutti gli aspetti della vita di queste persone, ed oggi la totalità dei minori frequentano le scuole elementari pubbliche e la maggior parte degli adulti risulta essere regolarmente occupato.

Giovanni Simioni
Nato nel 1999 a Milano e da sempre interessato alla politica, studio Scienze Politiche all’Università Bocconi. Sono entrato in OriPo per avere una scusa per studiare in maniera approfondita ciò che prima era solo una passione da perseguire nel tempo libero.

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