Con revenge porn si intende la pubblicazione e diffusione di materiale privato con contenuto sessualmente esplicito senza il consenso delle persone rappresentate.
Indicato con un termine in parte scorretto in quanto, spesso, non c’è il fine specifico di vendetta, non è un fenomeno nuovo. Non è però un caso che esso stia riemergendo in modo non indifferente in questo momento, in cui i contatti fisici sono inevitabilmente limitati e videochiamate e sex texting sono in aumento.
Complice l’aumento del tempo trascorso sui social network e più in generale online, che si stima essere cresciuto del 70% dall’inizio delle misure di distanziamento sociale, la diffusione illecita di foto intime sembra essere in crescita.
Il lato oscuro di Telegram
Qualche settimana fa, una seconda inchiesta di Wired, a distanza di un anno dalla prima, ha svelato un nuovo enorme network italiano: materiale intimo di ragazze e bambini, contenente foto e video di atti erotici o sessuali pubblicati senza la consapevolezza o il consenso delle vittime. Si contano 43 mila iscritti in due mesi, 21 canali telematici collegati e un ritmo di conversazione che si aggira sui 30mila messaggi al giorno. Qui, corpi femminili vengono ridotti a merce in una vera e propria economia del baratto.
Nel generale quadro di digitalizzazione indotta della popolazione italiana, anche Telegram ha registrato, nell’ultimo periodo, un aumento importante in termini di nuove iscrizioni. Pare infatti che molti abbiano dato una chance alle app di messaggistica alternative al tradizionale Whatsapp. Ipotesi in parte confermata dalle tendenze delle ricerche per il termine “Telegram”, mostrato da Google Trends.
La garanzia per i propri utenti di poter comunicare in modo riservato, grazie alla crittografia end-to-end, è stata, anche per motivi politici, una delle peculiarità iscritte nel DNA dell’app russa.
Tuttavia, l’interesse per la protezione dei dati ha portato Telegram a configurarsi, tristemente, anche come terreno fertile per utilizzi illeciti, tra cui il revenge porn figura come il più rilevante.
Codice rosso
Il revenge porn non è più solo una questione di morale, ma anche di legge. Dopo un lungo e lamentato periodo di vuoto legislativo, anche in Italia, dal luglio 2019, questo è stato identificato come un reato punibile ai sensi dell’art.612 ter del Codice Penale.
Il “Codice rosso”, nome del disegno di legge approvato e divenuto effettivo, ha previsto che chiunque ceda, pubblichi o diffonda foto e video intimi senza consenso venga punito con una pena da uno a sei anni di carcere e una multa da 5mila a 15mila euro. Le stesse misure possono applicarsi anche a chi contribuisce a diffondere questo materiale inviandolo ad altre persone. La pena è aumentata se il responsabile è un coniuge, ex partner o la pubblicazione è avvenuta tramite strumenti informatici. È inoltre aumentata da un terzo alla metà se la vittima è una persona in condizione di inferiorità fisica o psichica o una donna in stato di gravidanza.
Se, come spesso accade nelle chat di Telegram, l’immagine è di un minore può scattare l’accusa di detenzione e diffusione di materiale pedopornografico. Questo reato punito è con la reclusione da uno a cinque anni e una multa da 2.582 a 51.645 euro. I casi di stupri virtuali di minori online scoperti dalla polizia postale sono raddoppiati tra il 2016 e il 2018: da 104 casi a 202 l’anno.
La legge nel mondo
Il primo Paese a dotarsi di una normativa in tema di revenge porn è stata la Repubblica delle Filippine con l’Anti-Photo and Video Voyeurism Act del 2009. Il provvedimento intende tutelare “l’onore, la dignità e l’integrità della persona”, predisponendo pene dai 3 ai 7 anni per i trasgressori.
Negli Stati Uniti, ciascuno Stato gode dell’iniziativa legislativa in campo penale. Tra questi, più di 40 si sono dotati di una legge contro il revenge porn.
La Francia si è dotata di una legislazione in materia a partire dal 2016, grazie a un emendamento alla legge di contrasto al cyber-crimine. Questo, confluita poi nell’articolo 226-2-1 del codice penale, punisce il reato di revenge porn con due anni di detenzione e multe fino a 60mila euro.
Nel Regno Unito il revenge porn è diventato un reato a partire dal 2015 e, anche qui, si prevedono fino a 2 anni di reclusione. Il governo britannico ha introdotto inoltre Revenge Porn Helpline, una linea telefonica istituita con il suo sostegno finanziario per dare assistenza alle vittime. Questa ha raccolto il doppio delle segnalazioni abituali nella settimana successiva al 23 marzo, giorno in cui anche sull’isola è scattato il lockdown e ha registrato un record assoluto di contatti nel mese che ne è seguito.
Tra gli Stati che hanno legiferato sul tema figurano anche Germania e Israele.
A questo quadro normativo differenziato per i vari ordinamenti, si affiancano l’art.12 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo e l’art.8 della Convenzione Europea sui Diritti dell’Uomo. La chiarezza del dettato normativo di questi non lascia spazio a dubbi riguardo il carattere primario e assoluto del diritto alla privacy contro qualunque eventuale rivendicazione del diritto di espressione. Il mancato consenso delle persone rappresentante non può e non deve conoscere nessun tipo di eccezione.
Dati alla mano
Secondo una ricerca di Amnesty International che ha coinvolto 4000 donne di otto Paesi diversi, 911 di queste hanno subito molestie o minacce online. Per quanto riguarda l’Italia, una donne su cinque ha riferito di aver subito minacce di aggressione fisica o sessuale. Nel 59% dei casi molestie o minacce online arrivavano da perfetti sconosciuti.
Risulta intuitivo dedurre il risvolto psicologico di tale fenomeno sulle vittime, spesso devastante. Secondo una ricerca svolta da Cyber Civil Right Initiative, il 93% delle vittime ha dichiarato di avere vissuto un forte stress a livello emotivo e psicologico, l’82% ha sofferto danni in termini sociali e occupazionali, il 34% ha assistito alla compromissione delle proprie relazioni familiari, il 38% di quelle amicali e il 13% di quelle sentimentali.
Il 49% ha dichiarato di aver subito molestie online da utenti che avevano avuto accesso al loro materiale privato. Infatti, il revenge porn si caratterizza spesso per la presenza di una dettagliata documentazione riguardante la vittima in allegato al materiale fotografico (doxing). Così, il 59% delle vittime ha visto condiviso il proprio nome completo, il 16% il proprio indirizzo e il 20% il proprio numero di cellulare.
Esiste una soluzione?
Nonostante l’Italia si sia dotata di una legge per contrastare questo fenomeno, esso non sembra affatto in diminuzione. Anzi, dimostrazione l’ultimo canale Telegram scoperto, sembra si stia sistematizzando.
Mentre il gruppo di hacker Anonymous Italia dichiara guerra ai gruppi Telegram e si riconosce l’impossibilità di vietare l’anonimato su Internet (come alcuni propongono) in quanto prezioso strumento nei regimi più oppressivi, c’è chi sottolinea l’obbligo delle piattaforme coinvolte di una maggior partecipazione per contrastarlo.
L’intervento degli amministratori di Telegram è risultato finora insufficiente: si è assistito a nuovi gruppi che rinascono dopo ogni chiusura e non temono la legge. Alla base di questa possibilità ci sono affiliazioni, gruppi di riserva e transazioni in buoni Amazon: così queste comunità sopravvivono.
L’intervento in campo normativo risulta senza dubbio un passo in avanti, così come le tante realtà di aiuto e sostegno alle vittime (sportelli online e assistenza psicologica) si configurano come preziosi spazi a cui, in privacy e sicurezza, possono rivolgersi.
In un quadro in cui la privacy e la dignità di molte donne viene violata da soggetti che scelgono di darle in pasto alla violenza di gruppo, ciò che è certo è che non esiste una soluzione rapida a questo problema. Questa deve nascere da un cambiamento che è culturale e richiederà tempo.