Cosa prevede il referendum sul taglio dei parlamentari
Il referendum sul taglio dei parlamentari, fortemente voluto dal Movimento 5 Stelle, prevede una riduzione delle seggi in entrambe le Camere, con la modifica degli articoli 56, 57 e 58 della Costituzione. Si passerebbe così da 630 a 400 seggi alla Camera e da 315 a 200 seggi al Senato, con un taglio complessivo di 345 parlamentari, pari al 36,5%. Tra questi, verrebbero ridotti i parlamentari eletti all’estero (18 a 12) e i senatori a vita (massimo 5).
Di conseguenza, una vittoria del “sì” porterebbe a una diminuzione della rappresentanza popolare: si passerebbe infatti da un deputato ogni 96.006 a uno ogni 151.210 abitanti e per da un senatore ogni 188 mila cittadini a uno ogni 302mila. È probabile, inoltre, che si renda necessaria una ridefinizione dei collegi elettorali per gestire il nuovo assetto.
La riforma costituzionale presentata dal M5S ha come principale obiettivo la riduzione dei costi della politica. Secondo le stime del partito, la riduzione dei parlamentari comporterebbe un risparmio di circa 100 milioni di euro all’anno, per un totale di circa 500 milioni a legislatura.
Tuttavia, secondo l’Osservatorio dei conti pubblici italiani di Carlo Cottarelli, il risparmio sarebbe molto più contenuto: con un netto complessivo annuo di 57 milioni di euro e di 285 milioni a legislatura, il taglio dei parlamentari ridurrebbe la spesa pubblica solo dello 0,007% sul totale.
Referendum costituzionale: cos’è e come funziona
Il referendum sul taglio dei parlamentari è un referendum di tipo costituzionale, detto anche confermativo o sospensivo, e viene garantito dall’art.138 della Costituzione. Non richiede il raggiungimento di un quorum, ovvero una soglia minima di voti per renderlo valido: vince il risultato che ha ottenuto il maggior numero di voti. Al contrario di un referendum abrogativo, agli elettori non si chiede di votare per eliminare una legge, ma piuttosto di approvare una riforma del testo costituzionale già vagliato da Camera e Senato.
Infatti, le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali vengono sottoposte a referendum solo nel caso in cui, in seconda lettura, non siano state approvate con una maggioranza di 2/3 da ciascuna delle due Camere. Ma come si richiede un referendum nel caso in cui la legge non passi in entrambe le Camere? Secondo l’art.138, per avere un referendum costituzionale è necessario che ne facciano domanda o un quinto dei membri di una Camera, o cinquecentomila elettori, o cinque Consigli regionali.
Nel caso del referendum sul taglio dei parlamentari, in Senato la legge ha raggiunto la maggioranza ma non la soglia richiesta a causa del voto contrario di Partito Democratico e Liberi e Uguali (al tempo all’opposizione) e l’astensione di Forza Italia. Quindi, anche se la riforma costituzionale è stata approvata in seconda lettura da tutti i gruppi parlamentari della Camera lo scorso ottobre, per farla passare si è reso necessario richiedere un referendum.
Il referendum sul testo di legge costituzionale approvato dal Parlamento ha raccolto le firme di 71 senatori, numero superiore al requisito previsto dall’art.138. Gli unici partiti a non supportare la richiesta sono stati Fratelli d’Italia e il Gruppo per le autonomie.
I precedenti referendum costituzionali
Nella storia della Repubblica italiana, si sono tenuti 72 referendum, di cui solo 3 costituzionali. La prima riforma costituzionale è quella del 2001 sul Titolo V della Costituzione, in cui si definiscono le competenze e le autonomie locali. Infatti, l’attuale struttura delle regioni dipende da una serie di riforme iniziate negli anni ‘70 e confermate dal referendum del 2001. L’obiettivo è quello di dare una forma più decentralizzata allo Stato. La legge viene approvata con il 64,2% dei voti, anche se l’affluenza è solo al 34%.
Il secondo referendum costituzionale si tiene nel giugno 2006 ed è promosso dal governo Berlusconi su ispirazione della Lega Nord. Il punto principale è la “Devolution”, ovvero una ulteriore devoluzione di potere alle regioni per giungere a un sistema federalista. Allo stesso tempo però prevede anche un aumento dei poteri del Presidente del Consiglio, avvicinando l’Italia a una Repubblica presidenziale. Si registra un’affluenza maggiore (52%) rispetto al primo referendum, ma la proposta viene respinta dal 62% dei votanti.
L’ultimo referendum, più recente, è quello del 4 dicembre 2016, spesso chiamato riforma Boschi-Renzi, che si conclude con una vittoria del “no” al 59% e con le dimissioni dell’allora premier Matteo Renzi. Tra le proposte bocciate, c’è il superamento del bicameralismo perfetto, in particolare la riforma del Senato e il taglio del numero di senatori, ma anche l’abolizione del Cnel (Consiglio nazionale per l’economia e il lavoro) e la ridefinizione del Titolo V della Costituzione, con una riduzione delle competenze regionali.
I sondaggi e le previsioni sul taglio dei parlamentari
Le previsioni avanzate negli ultimi mesi continuano a dare il sì in netto vantaggio. Secondo il sondaggio più recente realizzato da Ipsos per Il Corriere della Sera, la percentuale si aggira attorno al 71%, anche se in calo rispetto all’86% rilevato qualche mese fa. I motivi dell’approvazione del taglio dei parlamentari appaiono chiari: la volontà di ridurre le spese pubbliche della politica e il taglio dei costi dei parlamentari è una tematica che riecheggia da molti anni, specialmente tra i pentastellati. Inoltre, coloro che sono a favore del “sì” sostengono che ridurre il numero di parlamentari renderà le deliberazioni del parlamento più efficienti, riducendo le discussioni e rendendo i parlamentari più partecipi, in conseguenza dell’aumento marginale del valore del loro voto.
Nelle ultime settimane si è acceso un dibattito politico sul referendum dopo mesi di quasi totale silenzio. Si è sollevato un fronte del “non sì” più consistente, tra defezioni all’interno dei maggiori partiti, prese di posizione di schieramenti minori come Azione e +Europa e opinioni meno omogenee tra le file di Forza Italia e Italia Viva. Tra i motivi del “no” vi è la riduzione della rappresentanza, soprattutto nelle regioni più piccole penalizzate dalla distribuzione dei seggi del Senato su base regionale. Inoltre, il fronte del “no” ritiene che la maggiore efficienza del parlamento non venga data da una riduzione dei parlamentari, quanto piuttosto da una modifica del processo legislativo, quale la revisione del bicameralismo perfetto.