Una coltura antica mille anni
La coltivazione di papavero da oppio ha origini antiche nel territorio afghano, inserito in un’area definita “Mezzaluna d’oro”, che include anche Iran, Pakistan e in misura minore India e Nepal e in cui grazie alle condizioni naturali del posto si coltiva papavero da oppio sin dall’XI secolo. Già persiani e mongoli utilizzavano il prezioso prodotto a scopo medico, in particolare come antidolorifico e sedativo, ma anche con fini ludici, sfruttando il potere euforizzante della morfina al suo interno. Tuttavia, è stato a partire dagli anni ‘60 del secolo scorso che il reticolo socio-economico dell’Afghanistan si è avviato verso il baratro anche a causa dell’oppio, offerto a consumi interni e internazionali sotto forma di pasticche di morfina, eroina e in mix a base di hashish e tabacco. In questo modo, il mercato nero nel Paese è cresciuto in modo esponenziale, finanziando le attività paramilitari di gruppi armati coinvolti nelle faide etniche per il controllo del territorio nazionale e segnando un aumento della tossicodipendenza nella popolazione, soprattutto giovanile.
Il cibo scarseggia ma i produttori locali scelgono l’oppio
Negli ultimi due decenni, i volumi di produzione dell’oppio in Afghanistan sono quadruplicati e ben 22 province su 34 ne sono interessate. Gli studi condotti dall’UNODC hanno rilevato che queste regioni sono caratterizzate da elevata instabilità politica e sociale e bassi livelli di sviluppo, causa la presenza radicata di gruppi armati che coprono il vuoto di potere statale e gestiscono la produzione di droga sfruttando gli abitanti delle aree rurali. Ma allora perché i coltivatori locali scelgono l’oppio? La risposta rivela una forte contraddizione viva nel Paese: sebbene il cibo scarseggi e un terzo della popolazione afghana soffra la fame stando ai dati del World Food Program delle Nazioni Unite, coltivare oppio è più redditizio di cereali e ortaggi destinati al consumo umano. Basti pensare che il prezzo di oppio essiccato nel 2016 era di ben 187$ al kg, mentre il prezzo del grano a dicembre dello stesso anno era appena un terzo di dollaro al kg, di fatto ammontava a AFN 23,8/kg, ossia $0,28/kg.
Se per i grandi proprietari terrieri l’oppio rappresenta l’opzione più proficua, per braccianti e lavoratori stagionali non è così. L’UNODC ha stimato infatti che la paga giornaliera per i lavoratori dell’oppio sia di circa $4 al giorno, pari a quella di altre colture, ma può salire fino a $6 per trattamenti specifici sul fiore di oppio. Per i giovani afghani è difficile trovare occupazioni alternative nelle aree rurali, mentre per molti contadini la lavorazione dell’oppio rappresenta una via temporanea per uscire dalla povertà, di fatto l’Afghanistan opium survey 2019 rivela che la maggior parte dei lavoratori utilizza il denaro per cibo, spese mediche e per ripagare debiti. Soltanto poco meno del 10% degli intervistati ha dichiarato di utilizzare la paga per l’educazione propria o dei figli, questo in un Paese in cui l’indice di sviluppo umano è tra i più bassi al mondo: l’Afghanistan è 169° su 188 Paesi.
Il mercato dell’oppio senza frontiere
Dal 1995 al 2020, gli ettari destinati alla coltivazione di oppio sono quadruplicati, mentre la produzione in tonnellate è triplicata, ma il mercato dei prezzi è piuttosto altalenante. Dopo tre anni in cui la produzione ha toccato i massimi storici, tra il 2016 e il 2018, il mercato sembra oggi saturato. Il prezzo di oppio essiccato nel 2020 è di 55$ al kg, in discesa del 13% rispetto ai $63/kg del 2019 e ben -65% rispetto ai $155/kg del 2017. La prospettiva di minori guadagni potrebbe indirizzare i coltivatori locali verso le colture cerealicole, il cui prezzo sul mercato è in crescita a seguito della crisi indotta dall’emergenza Coronavirus. In realtà, l’analisi dell’UNOCD suggerisce che a farne le spese saranno i lavoratori, che potrebbero assistere a una riduzione della paga e dunque si troverebbero in una situazione di maggiore precarietà. In aggiunta, la crisi generata dal Covid-19 arriva dopo una dura carestia nel 2018 e violente alluvioni nel 2019, che hanno acuito fame e debiti tra i più poveri. Tuttavia, si continua a prediligere la coltivazione di oppio, di fatto nel 2020 si registra un +37% degli ettari interessati dalla coltura rispetto all’anno precedente.
Inoltre, se prima l’Afghanistan era solo un Paese esportatore, con il tempo la produzione è cambiata e il Paese è diventato anche raffinatore dell’oppio grezzo in eroina, grazie a migliaia di laboratori sparsi sul territorio. La materia finita poi, giunge sui mercati e transita per tre diverse vie di contrabbando: la via del Nord, del Sud e dell’Ovest. La rotta del Nord, in continua crescita, attraversa i tre Paesi centro-asiatici confinanti: Turkmenistan, Uzbekistan e Tajikistan. La rotta del Sud invece, transita per il Pakistan fino a raggiungere la Cina, l’Oceania, l’Africa e l’America. E infine la rotta dell’Ovest, o rotta balcanica, che attraverso l’Iran raggiunge le piazze europee. Ed è proprio in Iran dove, negli ultimi anni, i trafficanti afghani hanno avviato il contrabbando di efedrina, una sostanza da cui si ottiene la metanfetamina, provocando una vera e propria epidemia giovanile di abuso di stupefacenti.
Chi e quanto ci guadagna?
Il 98% dell’oppio afghano proviene da 7 province; quelle in cui la coltivazione è maggiore sono tutte situate nel Sud-Ovest del Paese, in particolare le regioni di Helmand e Kandahar, storicamente sotto il controllo dei talebani. Il gruppo infatti ha sempre fatto del papavero da oppio il proprio petrolio, sfruttando questo commercio per finanziare le proprie attività. Considerando la filiera dell’oppio come la maggior fonte di impiego in Afghanistan, fornendo secondo l’analisi 2020 dell’UNODOC ben 120mila posti di lavoro, non è difficile immaginare l’enorme portata dei ricavi annuali per i talebani: secondo una stima pubblica della BBC si aggira tra i 100 e i 400 milioni di dollari. Il principale indotto economico del gruppo infatti, deriva dalle tasse imposte ai coltivatori: un 6% trattenuto come tassa sulla produzione e un ulteriore 10% che rappresenta la tradizionale decima islamica sulla produzione agricola, la Ushr, teoricamente finalizzata a sostenere le persone in difficoltà. Le tasse vengono inoltre riscosse dai laboratori e dai trafficanti: tutto questo, secondo un’analisi dell’organismo di vigilanza statunitense per la ricostruzione afgana (Sigar), costituisce il 60% delle entrate annuali del gruppo armato.
La comunità internazionale sta a guardare
Durante la prima conferenza stampa dalla presa di Kabul, il portavoce Zabihullah Mujahid, ha affermato di voler “fermare la produzione di droga in Afghanistan”. In effetti in molti ci hanno già provato, anche i talebani stessi. Nel 2000, sperando di ottenere riconoscimenti a livello internazionale, essi riuscirono davvero ad abbattere il contrabbando di oppio. Questa misura speciale fu però di breve durata: le pressioni dei coltivatori e la mancata reazione della comunità internazionale, portarono la produzione a crescere nuovamente.
Anche gli USA e i loro alleati, nel 2001, si impegnarono in un’azione di contrasto alla produzione e al contrabbando di droga, senza ottenere però nessun risultato apprezzabile. Gli Stati Uniti hanno infatti speso più di 8 miliardi di dollari dal 2001 al 2015 per tentare di arginare il problema: la quota principale è stata destinata all’eradicazione delle piantagioni e solo un miliardo e mezzo di dollari sono stati spesi per lo sviluppo di coltivazioni alternative, come zafferano e grano. Questa azione di sostituzione è stata infatti insufficiente per compensare il ruolo economico del papavero da oppio e ha prodotto solo lo spostamento dei coltivatori in aree fuori dal controllo delle forze alleate. Le Nazioni Unite, dal proprio canto, conducono dal 2002 programmi tesi a liberare quante più province possibili dalle coltivazioni di oppio. Il risultato? Ad oggi, le coltivazioni di oppio sono quadruplicate rispetto al 2001.
Il contrabbando di oppio e dei suoi derivati è dunque una medaglia a due facce: costituisce la più proficua entrata economica per i pericolosi talebani, ma è anche la sola possibile fonte di reddito per migliaia di famiglie afghane. Il mercato del l’oppio contribuisce al Pil afghano per circa il 10%, ma con costi sociali troppo elevati perché sia sostenibile, in primis la piaga della tossicodipendenza giovanile e lo sfruttamento dei contadini. Occorre perciò gettare le fondamentale di un sistema di sviluppo nuovo ed efficiente, lontano dal mercato nero che oggi divora l’intero reticolo economico del Paese.
Questo articolo fa parte di un dossier di approfondimenti sull’Afghanistan. Per visualizzare tutte le analisi di OriPo sul tema, clicca qui.
Testo a cura di Gaia Pelosi e Giulia Isabella Guerra