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“Manca l’acqua? Date al popolo lo champagne”

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Sono ormai due mesi che a Milano non piove come dovrebbe, cioè per un paio di giorni di fila, in modo tale che l’acqua purifichi l’aria inquinata della città. La carenza d’acqua e la siccità sono aumentate in maniera esponenziale negli ultimi decenni e hanno avuto conseguenze imprevedibili, al di là di quelle naturalistiche: il riscaldamento climatico è persino una tra le cause della primavera araba, un periodo di proteste e agitazioni sorte principalmente in Africa nel 2011. Infatti, tra i motivi scatenanti rientra la decisione di un panettiere di darsi fuoco in segno di protesta e di disperazione perché non riusciva più a vendere i propri prodotti, troppo costosi dato che, a causa di una prolungata siccità, il prezzo del grano era salito alle stelle.

Come afferma l’articolo “Riscaldiamo il dibattito, non il pianeta”, il riscaldamento del sistema climatico è un fatto inequivocabile, scientificamente provato e correlato all’attività umana fin dal periodo industriale. Dopo attenti studi e analisi, la soglia che l’IPCC (Pannello Intergovernativo sul Cambiamento Climatico) ha chiesto di non superare è di 1,5°C in più rispetto all’era pre-industriale, per evitare di trovarci in situazioni future molto difficili da gestire. Di conseguenza, l’essere umano ha solamente una finestra di mezzo grado per correre ai ripari, perché il riscaldamento già avvenuto è dell’ordine di un grado. Dato che la temperatura aumenta di 0,2°C per decade, se continuiamo di questo passo raggiungeremo il punto di non ritorno nel 2040. Il problema vero, però, è un altro: attualmente noi non siamo in grado di invertire la rotta: l’indifferenza, il deficit di conoscenza generale sono davvero vasti per poter intraprendere delle azioni concrete.

Il costo di non agire

È necessario ricordare che gli impatti del clima non sono circoscritti geograficamente e temporalmente e questa incertezza crea confusione e causa distacco e indifferenza da parte dell’opinione pubblica, che quindi non dà gli incentivi corretti alle figure politiche di rappresentanza: i problemi a lungo termine non sono tipicamente a cuore dei politici, che per motivi elettorali si impegnano per risultati a breve termine. Come disse Jean-Claude Junker, “Sappiamo tutti cosa fare, ma non sappiamo come essere rieletti quando l’abbiamo fatto.”

All’inizio anni ’90, Robert Costanza, padre dell’ecologia moderna, spiegò che continueremo a degradare gli ecosistemi perché tale perdita non è associata ad un costo in termini economici. A quanto pare, per il genere umano, soprattutto quello al potere, vale la pena combattere e preservare solo ciò a cui è associato un prezzo. Allora traduciamo tutto questo in denaro: i servizi ecosistemici, cioè i servizi gratuiti garantiti dalla natura all’uomo, da quelli di fornitura e approvvigionamento a quelli culturali, equivalgono in Italia a 71,3 miliardi di euro all’anno. Secondo l’ultima indagine a livello europeo nel maggio 2008, il cambiamento climatico ha causato una perdita di servizi ecosistemici pari a 50 miliardi di euro.

Più di tutto, però, sorprende l’indifferenza della popolazione, quando invece una richiesta per un mondo migliore dovrebbe soprattutto partire dal basso. Perché si parla di riscaldamento globale dagli anni ’30, quando il New York Times lo citò per la prima volta, eppure gli sforzi e i risultati sono minimi? I problemi di comunicazione del cambiamento climatico rappresentano un grande fallimento e uno dei motivi per cui non siamo riusciti a capire questo problema fino in fondo. Il punto è che non c’è una reale risposta politica e non è facile comunicare dei concetti così complessi in modo accattivante. Bisogna che il riscaldamento globale diventi un argomento “sexy”.

Quali sono i peggiori errori della comunicazione odierna in ambito di cambiamenti ambientali?

Innanzitutto, i mass media trattano di questo problema poco e male: spesso i giornalisti tendono a riferirsi al clima solo in corrispondenza della COP (Conferenza delle Parti) o quando si verifica una situazione di emergenza come tornadi, trombe d’aria, alluvioni … Se ne parla con un’enfasi che fa audience, dando l’impressione che non ci sia più niente da fare. Questa apocalisse climatica, questa narrativa punitiva, privativa e catastrofica deve lasciare spazio ad una narrativa positiva: parlare di clima quasi quotidianamente dando informazioni scientificamente valide.

Inoltre, pare che avere a cuore il futuro del pianeta sia una “cosa di sinistra”, un tema di cui solo la sinistra tradizionalmente si occuperebbe (sempre con fatica e difficoltà). Tuttavia, finché il cambiamento climatico resterà una battaglia a cui la destra non prenderà parte, metà della popolazione non la sosterrà. Bisogna de-politicizzare il dibattito: il riscaldamento globale è un fatto scientifico, oggettivo, che non può far parte di una disputa di opinioni: anche l’altra metà della popolazione dovrebbe prendere a cuore la situazione ambientale. Altrimenti rischiamo di avviarci ciecamente verso il punto di non ritorno, come spiega l’articolo “Fake news, la verità NON sta nel mezzo”.

Infine, la comunicazione diretta del problema che ci sta di fronte non è facile perché c’è una grande variabilità climatica, che confonde la percezione pubblica e viene sfruttata dalle amministrazioni. Non ci sono certezze temporali: gli scienziati non sanno dire come e quando la situazione cambierà; allo stesso tempo le persone vogliono certezze, quindi si allontanano dal problema, in un processo di diniego.

L’effetto Thunberg

Il riscaldamento globale si può affrontare da due punti di partenza: da un lato ovviamente l’approccio dall’alto, il processo negoziale tra Paesi, può aumentare la cooperazione per la mitigazione delle cause del cambiamento climatico e l’adattamento a livello locale nei confronti delle sue conseguenze. Ma più di tutti, la spinta da basso è fondamentale, la cosiddetta “ecopartecipazione”. In tutto ciò si inserisce il cosiddetto “effetto Thunberg”: Greta Thunberg è una giovane attivista svedese, tra l’altro affetta dalla sindrome di Asperger, che sta dando una spinta alle coscienze del mondo intero: il 20 agosto 2018, non si presenta a scuola per andare a manifestare davanti al parlamento contro l’indifferenza della politica di fronte al cambiamento climatico. La sua protesta va avanti tutti i giorni fino alle elezioni di settembre, poi continua ogni venerdì. Questa manifestazione settimanale scavalca i confini svedesi e influenza Belgio, Svizzera, Regno Unito, Australia, Stati Uniti, ma anche l’Italia. Tutti ricordano: “Non c’è un pianeta B”. Questa denuncia dell’indifferenza nei confronti del cambiamento climatico è funzionale perché parte dal basso, da chi più dovrà convivere con le problematiche imminenti legate al clima, ovvero i giovani. Le mobilitazioni di ragazze e ragazzi hanno tutti gli elementi per avere successo: si svolgono nei centri del potere economico e politico, non hanno una connotazione ideologica e chiedono con forza un cambiamento di mentalità. Come diceva Albert Einstein, “Non possiamo risolvere un problema usando lo stesso modo di pensare con cui lo abbiamo creato”.

 

Francesca Squillante
Nata a Venezia 22 anni fa, mi sono laureata in Scienze Politiche all’Università Bocconi ed ora mi metto alla prova con una doppia laurea Bocconi-Sciences Po in Scienze Politiche e Affari Europei. Esistono tre modi per imparare: leggere, viaggiare e far parte di OriPo.

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