La percezione di questo fenomeno non è confinata all’ambiente accademico, ma arriva fino ai comuni cittadini. Alla domanda “La mia voce conta all’interno dell’Unione Europea?”, solamente i 31% degli italiani ha risposto in maniera affermativa, contro un 59% della Germania e una media europea del 47%. A preoccupare non sono solamente i valori inferiori alla maggioranza assoluta, ma anche le disparità presenti tra gli Stati Membri stessi. Disparità difficilmente spiegabili, in quanto i processi elettorali e di partecipazione stabiliti dai Trattati sono comuni a tutta l’Organizzazione. Parallelamente a questo fenomeno, viene erosa anche la credibilità del progetto comunitario: cresce la disaffezione dei cittadini dell’Unione e diminuiscono coloro che affermano di avervi ancora fiducia, che solo in 8 Stati su 27 superano il 50%. Ora più che mai, davanti a questioni di urgenza e complessità sempre maggiore, dall’impatto della guerra in Ucraina al cambiamento climatico, è necessario ricostruire un fronte solido e confidente.
Le imperfezioni della democrazia europea
E’ proprio nelle istituzioni dell’Unione che va rintracciata la mina vagante del deficit democratico. In particolare, l’istituzione più sensibile a questo fenomeno è quella più direttamente legata al voto popolare: il Parlamento. Ognuno dei 27 Stati Membri ha adottato un regime democratico: chi pieno e chi imperfetto, chi tramite una forma repubblicana semipresidenziale e chi parlamentare. Paradossalmente, la ricerca di una formula idonea alla rappresentanza popolare sembra essere stata trascurata al momento della definizione della struttura comunitaria. Nel disegno originale era solamente il Consiglio dell’Unione Europea a detenere il potere legislativo. La rappresentanza democratica era quindi garantita in modo indiretto, essendo il Consiglio formato da un rappresentante di ciascuno Stato membro a livello ministeriale per materia oggetto di trattazione (art. 16 TUE). Se tuttavia a livello nazionale i singoli parlamenti hanno la possibilità di esercitare un’azione di controllo sull’Esecutivo, l’attività di ministri e rappresentanti del governo non è allo stesso modo supervisionata a livello europeo. Qui questi possono di fatto perseguire politiche senza rendicontarle al parlamento nazionale, e quindi agli elettori: cade così qualsiasi garanzia di sovranità popolare e accountability.
Questa situazione è andata modificandosi a partire dagli anni ’90. Il trattato sull’Unione europea (TUE) del 1992 e il trattato di Amsterdam (1997) hanno promosso il Parlamento al ruolo di colegislatore su un piano di parità con il Consiglio. Il Parlamento ha poi acquisito il potere di approvare la composizione della Commissione, nominarne il Presidente e porre il veto nella scelta dei membri, rafforzando così il controllo esercitato sull’esecutivo UE. Sono però presenti ancora diversi punti deboli.
Cosa bisogna ancora rivedere nelle istituzioni europee
Innanzitutto, l’iniziativa legislativa, che nel nostro ordinamento è condivisa da Governo, Parlamento e cittadini, spetta esclusivamente alla Commissione. Per di più, l’articolo 289 del trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (TFUE), prevede che siano solo tre i casi in cui è il Parlamento europeo a decidere con la partecipazione del Consiglio: l’adozione dello statuto dei membri del Parlamento, la definizione delle modalità per l’esercizio del diritto d’inchiesta e l’adozione dello statuto del Mediatore europeo. Nei casi restanti, il ruolo dell’assemblea è meramente consultivo, o del tutto assente. In secondo luogo, la popolarità delle elezioni europee è alquanto ridotta. Dal 1978 i membri del Parlamento europeo vengono direttamente eletti ogni cinque anni a suffragio universale. Di fatto, questo rappresenta l’unico momento in cui i cittadini dell’Unione sono chiamati a partecipare attivamente al processo politico e in cui si assicura l’accountability degli eurodeputati e dei vertici UE. Nella prassi però, si è ormai consolidata l’idea che queste elezioni siano di “secondo ordine”, spesso sfruttate alla stregua di mid-term elections per manifestare dissenso alle maggioranze nazionali. Mancano quindi elezioni propriamente “europee”, realmente sentite da un’opinione pubblica forte e compartecipe.
Per ultimo, sorge il problema della trasparenza. La procedura legislativa ordinaria si è nel tempo condita di una prassi singolare: i “triloghi”. Per triloghi si intendono negoziati informali a cui partecipano alcuni rappresentanti delle tre istituzioni europee principali: Parlamento, Consiglio e Commissione. Questi negoziati hanno lo scopo di concordare in maniera informale orientamenti politici ed emendamenti riguardo alle proposte legislative avanzate dalla Commissione. Quanto stabilito viene poi formalmente presentato nelle assemblee plenarie per essere dibattuto. I negoziati avvengono a porte chiuse, al fine di velocizzare il processo di codecisione e renderlo più efficace. L’accesso alle telecamere è bloccato, non vi è alcuna registrazione o verbale ufficiale delle riunioni. Risulta quindi assente ogni mezzo di rendicontabilità e trasparenza. E’ proprio l’informalità la chiave del successo di queste deliberazioni, e allo stesso tempo un significativo campanello d’allarme. I primi esempi di triloghi, avviati negli anni ’70, sono stati formalizzati dalla dottrina con il Trattato di Lisbona, che riconosce nell’articolo 295 TFUE a Parlamento, Consiglio e Commissione la facoltà di concludere accordi interistituzionali anche di natura vincolante. Non è però presente alcun riferimento a negoziati segreti ed informali nè nei Trattati né nei regolamenti interni di Consiglio e Commissione. Di come, dove e quando si svolgano questi confidenziali rendez-vous poco si sa. Si stima però che ben l’85% della legislazione europea sia frutto di tali first-reading agreements. Sorge quindi un dilemma problematico: se da un lato l’effettività delle procedure legislative europee si regge su questo meccanismo, non possiamo più trascurarne l’evidente violazione del principio democratico di trasparenza. Principio su cui, peraltro, si fonda il parlamentarismo europeo così definito dal TUE (art. 9-12).
Partire dal deficit democratico per conquistare gli euroscettici
Rivolgendo lo sguardo al popolo, i Parlameter parlano chiaro: il 63% degli europei chiede che il Parlamento giochi un ruolo più importante nelle dinamiche politiche future, mentre il 77% desidererebbe ricevere maggiori informazioni sulle attività delle istituzioni europee. Laddove solamente il 27% è soddisfatto dell’andamento corrente dell’attività europea, chi si definisce piuttosto scettico (21%) ammette di poter cambiare idea in vista di una riforma radicale che aumenti l’accountability delle istituzioni e le renda più trasparenti.
Dei primi piccoli step sono già stati fatti. Andando oltre il mero conferimento di natura elettiva e colegislativa, il trattato di Lisbona (2009) ha rafforzato i poteri del Parlamento in materia finanziaria, legislativa e di nomina. Il Parlamento svolge ad oggi un ruolo chiave nell’approvazione del bilancio annuale UE, la procedura di codecisione con il Consiglio è divenuta procedura legislativa ordinaria ed è proprio l’assemblea ad eleggere il Presidente della Commissione, sebbene su proposta del Consiglio europeo. Nell’aprile 2016 Commissione, Parlamento e Consiglio hanno sottoscritto un accordo interistituzionale, il c.d. Better Regulation Agreement, che ha rafforzato gli strumenti di consultazione e partecipazione del pubblico e di tutti gli stakeholders. E’ stato creato poi un apposito organo, il Regulatory Scrutiny Board, incaricato di monitorare le valutazioni ex post da parte degli utenti finali degli atti europei. Questo ha altresì il compito di predisporre linee guida e standard precisi sulle modalità con cui le consultazioni pubbliche, un tempo affidate esclusivamente alla Commissione, devono essere condotte.
Sebbene l’esistenza di un deficit democratico sia diffusamente riconosciuta, non può dirsi lo stesso per le soluzioni da adottare. C’é chi domanda una riduzione dei poteri istituzionali sovranazionali o una fuoriuscita unilaterale del proprio stato dall’Unione, e chi invece ritiene che sia necessario procedere con un ulteriore rafforzamento dell’integrazione europea, dai contorni magari federalisti. Era proprio quest’ultima soluzione quella indicata dall’uomo che per primo ha parlato di deficit democratico: Richard Corbett, all’epoca presidente dei Jeunes Européens Fédéralistes. I JEF hanno sempre chiamato a gran voce una deriva federalista che consolidasse nei residenti comunitari l’idea di essere propriamente “cittadini europei”. D’altronde, concedere più occasioni di partecipazione all’elettorato potrebbe rivelarsi una soluzione poco efficace, in una realtà in cui l’affluenza alle urne europee è passata dal 62% nel 1979 al 43% di oggi.
Al di là della volontà di estendere il consenso europeo agli scettici per fini politici, un maggiore senso di appartenenza all’Unione avrebbe importanti conseguenze anche a livello redistributivo e di sviluppo economico. I confini della comunità a cui sentiamo di appartenere definiscono anche i limiti geografici entro cui siamo disponibili a ridistribuire le nostre risorse e a contribuire al progresso. In tempi complessi come quelli correnti, agire sul perimetro della solidarietà, e dunque della crescita, è fondamentale per fare dell’Europa un nuovo protagonista.
*Crediti foto: “Immagine di Parlamento europeo, Strasburgo, Terrazza” via Pixabay