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In India, l’autoritarismo di Modi minaccia la democrazia

Tempo di lettura stimato: 6 min.

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Guardando al numero di cittadini, l’India è la più grande democrazia del mondo. O almeno, secondo il giudizio di molti osservatori, lo era. Oggi, gli analisti concordano nel sottolineare come lo Stato subcontinentale stia scivolando lentamente verso un futuro meno democratico e più autoritario. Solo per citare alcuni esempi, gli ultimi rapporti di Freedom House e V-Dem (due think-tank che si occupano di valutare il livello di democraticità nei diversi paesi del mondo) hanno declassato l’ex colonia britannica da “piena democrazia” a “democrazia imperfetta”, o “autocrazia elettorale”. Cosa sta succedendo in India? Prima di rispondere alla domanda, bisogna considerare alcuni aspetti sul sistema istituzionale e sulla società indiana.

Lo Stato indiano, le elezioni del 2014 e il successo del BJP

Dal punto di vista istituzionale, l’India è una repubblica federale composta da 28 stati federati e 8 territori dell’Unione. La differenza risiede nel fatto che i primi godono di ampie autonomie e di un proprio governo, mentre i secondi sono sottoposti al controllo diretto del centro. Il parlamento è bicamerale, composto da una camera alta di rappresentanti nominati dagli stati –il Rajya Sabha– e da una camera bassa elettiva –il Lok Sabha– di 545 seggi, espressione delle 543 circoscrizioni elettorali in cui è diviso il territorio indiano (a cui si aggiungono due seggi di nomina presidenziale).

Il punto di rottura con la tradizione precedente è da ricercarsi nelle elezioni parlamentari del 2014, che hanno decretato lo straordinario successo del partito nazional-conservatore Bharatiya Janata Party (BJP) guidato dal leader carismatico Narendra Modi, con la conquista di 282 seggi alla camera bassa, divenuti 302 nelle successive elezioni del 2019.

Due almeno sono i fattori che possono spiegare lo straordinario successo del BJP. In primo luogo, il partito –che fino ad allora era sempre rimasto all’opposizione a livello federale- è riuscito a far leva sul risentimento della popolazione indiana verso l’establishment politico giudicato “corrotto” e “incapace di far fronte alle necessità economiche del paese”, riuscendo a porre fine al governo quasi secolare della dinastia Nehru-Gandhi. In secondo luogo –ed è un elemento di particolare rilievo- il BJP ha raccolto ampi consensi dalla base elettorale di religione induista, che in India rappresenta circa l’80% della popolazione (a titolo di paragone, i musulmani sono il 14%, concentrati in territori specifici come il Jammu e Kashmir).

Infine, bisogna sottolineare che il partito rappresenta l’ala parlamentare del Rashtriya Swayamsevak Sangh (RSS), un’organizzazione volontaria paramilitare dell’estrema destra nazionalista fondata nel 1925 per raggiungere l’indipendenza dall’Impero britannico. L’architettura ideologica del RSS si regge sulla Hindutva, un’ideologia fondamentalista e ultranazionalista vòlta a creare uno Stato hindu omogeneo dal punto di vista culturale, etnico e religioso, che incoraggia l’utilizzo della violenza e della lotta armata per raggiungere lo scopo. Sebbene l’organizzazione –di cui Modi fa parte da quando aveva 8 anni- sia mutata negli anni attenuando la componente militarista, il richiamo all’ideologia Hindutva rimane forte, aiutato dalla capillarizzazione nella società di un universo di organizzazioni afferenti al RSS (chiamate nel complesso Sangh Parivar, che significa letteralmente “famiglia del RSS”), con l’obiettivo di promuovere i valori e lo stile di vita induista.

Poste queste condizioni, risulta più chiaro comprendere come Modi sia tuttora il leader eletto con il maggior tasso di approvazione netto, dai dati di Morning Consult. La propaganda fortemente identitaria e culturale ha fatto breccia nella base elettorale induista –che, giova ripeterlo, rappresenta l’80% della popolazione- assicurandogli un largo consenso. Esiste però il rovescio della medaglia: se da un lato il BJP ha esaltato la maggioranza Hindu, dall’altro ha ripetutamente attaccato le minoranze musulmane, fino a sfociare in vere e proprie forme di discriminazione e violazione di diritti umani.

Ci sono Modi e Modi di fare politica

In realtà, i segnali di intolleranza verso gli indiani musulmani erano già ben visibili quando Modi, non ancora primo ministro, era governatore dello Stato del Gujarat. Nel 2002, ad esempio, nello stato federato si scatenarono violenti rivolte che portarono al massacro di circa un migliaio di musulmani, senza che il governo agisse per cercare di sedarle. Salito al potere, poi, la situazione non è migliorata.

Nell’agosto 2019 il governo Modi ha revocato unilateralmente, tramite decreto, gli articoli 370 e 35a della Costituzione Indiana, che attribuivano all’ex stato del Jammu e Kashmir –unico dell’Unione a maggioranza musulmana– ampie autonomie e agevolazioni speciali per i nativi kashmiri. L’intero Stato è scomparso dalla mappa, smembrato nei due territori del Jammu-Kashmir e Ladakh (che, essendo territori, sono posti sotto il controllo diretto del centro). La mossa è stata accompagnata dall’invio di contingenti armati per reprimere le proteste, dall’imposizione di uno strettissimo coprifuoco militare e dall’isolamento delle comunicazioni su tutto il territorio. Si calcola che il blocco di internet sia durato più di 200 giorni, il più duraturo nella storia delle democrazie, e che siano state imprigionate diverse migliaia di residenti.

Pochi mesi più tardi, nel dicembre 2019, il parlamento indiano ha approvato un emendamento alla legge di regolamentazione dell’immigrazione. Il Citizenship Amendment Act (CAA) rende idonei a richiedere la cittadinanza indiana i rifugiati di Bangladesh, Pakistan e Afghanistan, ma solo per coloro di religione induista, cristiana, buddista, sikh e zoroastriana, escludendo i migranti musulmani. La motivazione –spiegava al Lok Sabha il ministro dell’interno Amit Shah, numero due del BJP- è che, essendo i Paesi di origine sopracitati di religione islamica, i rifugiati musulmani sarebbero considerati degli irregolari, e come tali non coperti. È singolare, però, che in un precedente discorso elettorale del 2018 lo stesso Shah si riferisse ai migranti del Bangladesh –musulmano- paragonandoli a “termiti che mangiano il cibo per i nostri poveri, rubano il lavoro e fanno esplosioni”, citando testualmente. Un anno dopo, l’avvento della pandemia Covid-19 ha ulteriormente esacerbato le discriminazioni a danno dei cittadini musulmani, dipinti come i colpevoli della diffusione del virus. Sui social sono esplosi hashtag come #CoronaJihad, alludenti ad un presunto complotto islamico, e si sono moltiplicate detenzioni irregolari e abusi.

Infine, per comprendere fino a che punto si siano spinte le violenze, e quanto l’ideologia Hindutva sia penetrata nel tessuto sociale, si pensi al fenomeno del Cow Vigilantism. Dal 2014 si sono moltiplicati gli attacchi da parte di gruppi di cittadini induisti (spesso affiliati al RSS) contro musulmani sospettati di macellare vacche, considerate sacre nella religione indù. Spesso, poi, gli attacchi sfociano nel linciaggio, nell’uccisione o nell’impiccagione per le strade.

Un nuovo autoritarismo induista?

L’India non è nuova a derive autoritarie. Nel 1975, ad esempio, l’allora primo ministro Indira Ghandi sospese le libertà civili e governò per decreto per 21 mesi, in quella che venne chiamata “The Emergency”. La popolazione indiana, però, si ribellò alle urne, infliggendole una pesante sconfitta elettorale e ripristinando l’integrità delle istituzioni democratiche.

Oggi, ammoniscono gli osservatori citati in apertura, la democrazia indiana è di nuovo messa alla prova. Sebbene sia riduttivo ricondurre il fenomeno alla sola condizione dei cittadini musulmani (il governo Modi ha attaccato lo stato di diritto su più fronti, da limitazioni alla libertà di stampa a nomine di uomini fedeli al BJP in posizioni di vertice, o interventi legislativi mirati) essa offre una lezione importante. Se, come diceva Tullia Zevi, le minoranze sono il sale della democrazia, queste devono essere tutelate e avere la capacità di far sentire la loro voce. Quando una minoranza è costretta al silenzio, significa che qualcosa, negli ingranaggi dei meccanismi democratici, è stato irrimediabilmente compromesso.

*Arrival of Narendra Modi, Prime Minister of India [crediti foto: G20 Argentina CC BY 2.0]
Andrea Montanari
Classe ‘00. Nato nella città di Leopardi, cresciuto in quella di Fabri Fibra, finito a scrivere di politica internazionale su OriPo per ironia della sorte. Attualmente studio relazioni internazionali in triennale alla Cattolica di Milano, nel futuro chissà. Da grande -perché a vent’anni si può ancora dire- sogno le istituzioni internazionali, per lasciare il mondo, almeno nel mio piccolo, migliore di come l’ho trovato. Inguaribile idealista, se non si fosse capito.

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