Articolo pubblicato su Business Insider Italia
Occupano tre quinti della superficie nazionale e fungono da casa a oltre 13 milioni di italiani: sono le aree interne d’Italia, ovvero quell’insieme di comuni più periferici in termini di accesso a servizi quali sanità, istruzione e mobilità.
Queste zone si distinguono in comuni intermedi, comuni periferici e comuni ultra-periferici a seconda della distanza dai cosiddetti comuni “polo”, ovvero l’insieme di quelle città che risultano in grado di offrire almeno un ospedale che garantisca degenza e interventi di medicina generale, chirurgia generale, ortopedia e traumatologia e cardiologia, almeno una scuola superiore di secondo grado e almeno una stazione ferroviaria medio-piccola.
La popolazione delle aree interne risulta così distribuita: 8,8 milioni di persone vivono nei comuni intermedi, distanti dai 20 ai 40 minuti dal polo più vicino, 3,7 milioni abitano i comuni periferici, distanti dai 40 ai 75 minuti dal polo più vicino e 670 mila risiedono nei comuni ultra-periferici, a oltre 75 minuti distanza dal polo di riferimento.
Il capitale inutilizzato delle aree interne
Il processo di marginalizzazione che ha interessato la maggioranza delle aree interne d’Italia fin dagli anni ’50 ha contribuito a ridurre l’offerta dei servizi fondamentali, escludendo queste zone, in una spirale negativa, dal movimento dei capitali, delle persone e delle merci. Tale fenomeno si declina dal punto di vista economico attraverso un forte sottoutilizzo del capitale territoriale, in linea con il modello territoriale della diffusione polarizzata della crescita economica italiana dal dopoguerra. Difatti, lo sviluppo ha interessato svariati sistemi territoriali, trascurando tuttavia alcuni centri e alcune città anche in regioni “virtuose” economicamente quali l’Emilia-Romagna, la Lombardia e il Veneto. Non a caso, in virtù della loro trasversalità, le aree interne sfuggono alla classificazione Nord-Centro-Sud.
Assieme al capitale territoriale, anche quello umano è stato messo a dura prova. A parziale riprova di ciò, la crescita del 10% della popolazione italiana fra il 1971 e il 2011 si è distribuita in maniera assai diseguale: mentre i poli intercomunali, i comuni di cintura e quelli intermedi hanno fatto registrare variazioni positive (rispettivamente del 22%, 35% e 11%), i comuni periferici e quelli ultra periferici (nei quali le aree interne rientrano) hanno subito una variazione compresa fra il -5% e il -8%. Tale riduzione è stata più pronunciata all’interno della fascia lavorativa e di quella dei nuovi nati, conducendo la popolazione di questi territori sotto la cosiddetta “soglia critica”, ovvero verso una percentuale di ultrasessantenni maggiore del 30%.
Al fenomeno economico e a quello demografico, si sono poi sommati eventi di natura sismica e di dissesto idrogeologico che per motivazioni principalmente morfologiche colpiscono di più queste aree: basti pensare all’Irpinia, così come ai territori colpiti dal terremoto del Centro Italia del 2016 e del 2017.
Seguendo questa prospettiva, è evidente come il rilancio di queste aree debba necessariamente passare attraverso il rilancio di opportunità occupazionali inesplorate dai giovani, spesso costretti a lasciare il proprio luogo d’origine o a lavorare sempre negli stessi ambiti, come quello pastorale o agricolo. Tuttavia, l’iniziativa dei singoli, affinché possa essere duratura nella sua efficacia, necessita, ancor più che altrove, di un piano pubblico di investimenti: in caso contrario, difficilmente si potrà far uscire queste zone dalla “trappola” della marginalizzazione.
Col proposito di contrastare la disuguaglianza territoriale adottando una prospettiva nazionale, nasce nel 2014 per volontà dell’allora Ministro della Coesione territoriale Fabrizio Barca la Strategia nazionale delle aree interne (Snai). Questa politica ha agito in questi anni attraverso progetti di sviluppo locale e di adeguamento e miglioramento dei servizi essenziali su 72 aree italiane, come la Garfagnana e le Madonie e, ancora, l’Alta Carnia, la Val Bormida e l’Alta Tuscia. La fase che si è appena aperta dopo quella iniziale 2014-2020 può costituire una spinta definitiva per queste aree.
Come rilanciare le aree interne
La mobilità figura senza dubbio fra le tematiche centrali nello sviluppo territoriale e nell’adeguamento dei servizi essenziali di questi territori. Basti pensare che le tratte che interessano le aree interne sono state le principali vittime dei tagli al trasporto su rotaia avviati negli ultimi decenni (a partire dal 1942 le linee hanno subito una contrazione del 16,4%) e, nei casi più fortunati, permangono a binario unico o non risultano elettrificate.
Per risolvere il nodo della mobilità dei residenti, dei turisti e dei visitatori presso queste località, è necessario un cambio di paradigma della Strategia nazionale per le aree interne, identificando come nuovo obiettivo generale la creazione e la promozione di smart villages. Si tratta di comunità rurali che consentono di usufruire di soluzioni di sharing mobility come il car-sharing e il car-pooling (sfruttando fonti di energie rinnovabili di cui questi territori sono ricchi) e che prevedono, soprattutto nei periodi di alta domanda, una maggiore capillarità del trasporto pubblico locale. A questo proposito, l’interconnessione può essere favorita dalla presenza di punti di interscambio posti nei pressi delle stazioni ferroviarie o di autobus più vicine o nelle vicinanze dei più grandi complessi residenziali.
Tuttavia, l’introduzione della mobilità intelligente richiede un livello di digitalizzazione adeguato e, quindi, la velocizzazione del Piano italiano di sviluppo della banda ultra-larga, la cui conclusione, dopo diversi ritardi, è prevista per il 2022. Allo stesso tempo, un livello di digitalizzazione adeguato consentirebbe anche il pieno esercizio dello smart working, elemento da non sottovalutare nel periodo post-pandemico.
L’obiettivo del piano appena menzionato era quello di investire sulle cosiddette “aree bianche”, intese come quei territori a fallimento di mercato dove gli operatori di telecomunicazioni non hanno investito o non hanno intenzione di investire. Territori in cui rientra quasi la totalità delle aree interne. Ciononostante, ad ottobre 2020 solo il 16% dei comuni facenti parte delle aree che avevano sottoscritto l’Accordo di piano quadro (l’ultima delle fasi che porta al finanziamento dei singoli progetti della Snai) aveva visto la fine dei lavori, mentre il 33% dei comuni risultava ancora in fase di progettazione.
Garantendo maggiori servizi ai residenti delle aree interne, sarà possibile rilanciare queste località, ricche di peculiarità artistiche e ambientali, anche da un punto di vista turistico, in un circolo virtuoso che potrà garantire nuove opportunità lavorative per i giovani. Difatti, affinché il processo di riorganizzazione turistica risulti diffuso e duraturo su tutti i comuni delle aree interne, è necessaria la presenza di comunità locali vitali e coinvolte.
Per rivitalizzare queste comunità occorre quindi abbandonare l’idea romantica del “ritorno ai borghi” per abbracciare un progetto di sviluppo solido e duraturo, che sappia coniugare, ancora più che in passato, partecipazione, innovazione e sostenibilità ambientale.