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Possiamo andare oltre il PIL?

Tempo di lettura stimato: 7 min.

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Il Prodotto Interno Lordo (PIL) è un indicatore macroeconomico che misura il valore aggregato dei beni e servizi generati dai residenti di un Paese in un dato periodo di tempo. Nel corso del secondo dopoguerra, questo indicatore si è guadagnato la reputazione di essere il migliore strumento a nostra disposizione per misurare la ricchezza e lo sviluppo di un Paese, venendo usato sempre di più da governi ed esperti come una sintesi dello stato di salute di un’economia.
Sono però sempre di più le critiche che vengono mosse al PIL, accusato di essere un indice obsoleto. In molti, infatti, argomentano che, nonostante il PIL potesse essere utile come principale indicatore economico negli anni del boom industriale del secondo dopoguerra (o Trente glorieuses), esso non sia adatto per misurarci con le sfide del nuovo secolo.

Una storia complicata

La storia del PIL inizia nel 1934, quando Simon Kuznets, economista americano, concepisce questa misura su incarico del Congresso degli USA al fine di permettere di comprendere meglio alcuni dei problemi emersi durante la Grande Depressione (una grave crisi economica che colpì l’economia mondiale alla fine degli anni venti e durante i primi anni del decennio successivo).
Già ai tempi, Kuznets mise in guardia contro l’utilizzo del PIL come una misura di benessere economico, argomentando che “il benessere economico non può essere misurato in maniera adeguata a meno che non si conosca anche la distribuzione individuale del reddito“. Specificò inoltre che fosse necessario distinguere tra la quantità e la qualità della crescita economica e che il PIL poteva essere un indicatore valido solo della prima.
Negli anni successivi altre criticità, che avrebbero dovuto mettere in guardia contro l’assunzione del PIL come principale indice di benessere, emersero. Queste si concentrarono principalmente sull’esclusione da ogni misurazione del lavoro non pagato (in particolare per quanto riguarda faccende domestiche e volontariato) e sull’inclusione, invece, di attività produttive dannose per la società come, ad esempio, le attività illegali che dal 2014 in Unione Europea vengono inserite nel calcolo del PIL.

Percezione e realtà

Alla luce degli eventi degli ultimi anni, le critiche a questo indicatore si sono intensificate, in particolare per l’evidente distaccamento tra le percezioni popolari e i dati sull’andamento economico in termini di PIL. Questo fatto è evidente negli USA, dove la maggioranza dei cittadini risulta essere insoddisfatta con l’andamento del loro Paese da 15 anni a questa parte, nonostante gli ormai 11 anni di costante espansione economica.

Grafico della soddisfazione rispetto all’andamento del Paese negli USA. Fonte: Gallup

In molti hanno provato a spiegare questo apparente paradosso dando la colpa all’ignoranza delle masse e alla loro manipolazione tramite le cosiddette “fake news“. La diffusione di notizie false tramite il web ha senza dubbio avuto un ruolo importante nell’indirizzare l’attuale dibattito pubblico, ma si può dire che dare la colpa unicamente alla disinformazione sia semplificativo. Si può invece argomentare che la differente percezione che la popolazione ha sull’andamento dell’economia sia indicativo di una differenza fondamentale tra ciò a cui il PIL guarda e le problematiche che più colpiscono il nostro mondo.

Le problematiche del PIL

Il primo importante punto che il PIL rende in maniera insufficiente è il problema ambientale, in particolare per quanto riguarda il deperimento delle risorse naturali. In molti, tra cui il Premio Nobel Joseph Stiglitz, hanno per anni suggerito di modificare il modo in cui stimiamo il PIL in modo da tenere in conto l’utilizzo di risorse naturali finite e la degradazione del territorio. Non considerare questi fattori può darci una visione eccessivamente rosea della situazione, in particolare in Paesi in via di sviluppo che basano parte della loro recente crescita sull’estrazione di risorse naturali. C’è anzi il rischio che passi l’idea che la crescita economica e lo sviluppo siano in diretto conflitto con l’implementazione di politiche di salvaguardia ambientale. In questo modo, il PIL non ci fornisce gli strumenti per valutare la sostenibilità della crescita economica.

Può anche essere interessante notare come il PIL sia completamente inadatto a misurare l’efficienza di un’economia. Il PIL si basa, infatti, sul principio che “più grande è, meglio è” ed in questo modo non ci permette di analizzare il modo in cui queste risorse vengono utilizzate. In Italia siamo particolarmente abituati al concetto di spreco nella spesa pubblica e ogni anno escono vari report che vanno a stimare la quantità di soldi che viene usata in maniera inefficiente. Per esempio nel 2017, secondo il rapporto della Fondazione Gimbe sulla Sostenibilità del Servizio Sanitario Nazionale, sui 113 miliardi di euro di spesa sanitaria pubblica, ben 21,5 miliardi di euro sono stati rappresentati da sprechi e inefficienze. Paradossalmente, nello scenario ideale in cui si riuscisse a tagliare la totalità di questi sprechi, il PIL italiano risulterebbe ridotto dell’1%. In questo modo, un politico che davvero vada ad attaccare le inefficienze nella fornitura di servizi pubblici si ritroverebbe costretto a giustificare il fatto che da ciò risulterebbe una riduzione della “ricchezza” della nazione.

Infine, il PIL non ci da nessun’idea della distribuzione della ricchezza in un’economia. Infatti, il PIL pro capite è semplicemente una media della ricchezza della popolazione e pertanto non ci dice niente della situazione del cittadino medio, espresso meglio da una misura come la mediana. Risulta quindi inutile guardare al PIL quando si ha a che fare con una società segnata da profonde diseguaglianze. In relazione all’insoddisfazione degli statunitensi nonostante anni di crescita economica, è interessante osservare il fatto che, dagli anni ’80 a questa parte, sembra esserci stato uno stop della crescita inclusiva che aveva caratterizzato i primi decenni del secondo dopoguerra negli USA. Ciò significa che la crescita economica negli ultimi anni è andata a beneficiare sproporzionalmente la fascia più ricca della popolazione, che ha lasciato indietro il resto del Paese. Questa tendenza non è stata evidenziata dal PIL ed è, anche per questo, rimasta tendenzialmente ignorata fino a quando lo studio delle disuguaglianze non è tornato al centro delle indagini degli economisti solo pochi anni fa.

Andamento del PIL pro capite in relazione ai redditi medi del 90% più povero della popolazione negli USA dal 1947 al 2018. Fonte: New York Times

Questa tendenza travalica i confini americani e sembra essere un fenomeno globale, come evidenziato dal rapporto che l’Oxfam ha recentemente presentato al Forum Economico Mondiale di Davos. Anche in Italia la crescita, benché lenta, del PIL dopo la crisi del 2008 nasconde il declino dell’attività economica nelle periferie e nel Sud man mano che la ricchezza si concentra in città come Milano. Il rapporto dell’Osservatorio Milano del 2019 afferma infatti che, rispetto al livello pre-crisi, il PIL di Milano sia cresciuto del 6,4% contro il -3,3% dell’Italia.

Perché preoccuparsi?

Il motivo per cui le criticità del PIL sono così rilevanti è che l’uomo funziona bene solo quando si da degli obbiettivi chiari. Quando il PIL è stato preso come principale misura dell’andamento dell’economia nel mondo, il buon andamento del PIL è diventato l’obbiettivo su cui i leader politici hanno potuto costruire la propria reputazione di buoni governanti e gettare le basi del proprio successo (o insuccesso). Questo fatto ha causato l’attuale situazione paradossale, in cui la crescita economica è dipinta da molti come il fine ultimo, piuttosto che un mezzo per raggiungere maggiore benessere e prosperità.
Ciò ha portato vari problemi, tra cui la mancata individuazione di criticità nell’economia e l’implementazione di ricette economiche sbagliate e in alcuni casi anche dannose, come evidenziato da questo rapporto dell’OCSE che prende ad esempio la crisi economica del 2008.

Cosa riserva il futuro?

Tutte queste argomentazioni sembrano indicare che il PIL non sia più adatto al ruolo di principale indicatore di benessere economico e che dovrebbe essere affiancato da altri indici che misurino meglio il livello effettivo di benessere della società nel suo complesso in tutte le sue sfaccettature.

Grazie all’impegno di molti individui, come il già citato Stiglitz, e di associazioni come la Wellbeing Economic Alliance e la New Economics Foundation, indici alternativi al PIL iniziano a venire usati da vari Paesi nel mondo.

Nel 2007, il governo scozzese ha iniziato questo progetto di riforma introducendo il Quadro di Rendimento Nazionale (National Performance Framework), una serie di valori alternativi al PIL con cui misurare le politiche implementate dal governo. L’esempio della Scozia è stato seguito dai governi di Islanda e Nuova Zelanda, che si sono uniti nel sollecitare i governi di tutto il mondo a mettere il benessere davanti alla crescita del PIL. La Nuova Zelanda è stato, inoltre, il primo Paese al mondo ad abbondonare ufficialmente il PIL come misura di successo economico. Il Primo Ministro Ardern ha dichiarato che le risorse saranno d’ora in poi distribuite a seconda del loro impatto sul benessere della popolazione misurato in relazione a cinque obbiettivi del governo: la salute mentale, il benessere dei minori, le condizioni di vita delle popolazioni indigene, l’adattamento dell’economia alla rivoluzione digitale e il taglio delle emissioni.

Progetti di riforma alternativi sono presenti anche negli Stati Uniti, dove un gruppo di ricercatori al Dipartimento del Commercio sta lavorando all’implementazione di una nuova versione del PIL che dovrebbe mostrare come la ricchezza viene ripartita tra i diversi gruppi di reddito. Allo stesso tempo, anche Paesi come l’Australia e i Paesi Bassi hanno iniziato a rilasciare dati sulla ripartizione della crescita del PIL tra diversi gruppi socio-economici.

L’elaborazione di indici alternativi al PIL non ci impedisce di valutare la crescita, che comunque rimane un dato importante da prendere in considerazione. Sarà però fondamentale, in questa epoca di grandi sfide globali, rivoluzionare il modo in cui elaboriamo risposte ai problemi. La risposta non può essere la crescita prima di tutto ma, piuttosto, l’utilizzo cosciente della crescita come mezzo al fine di ottenere maggiori livelli di benessere.

Giovanni Simioni
Nato nel 1999 a Milano e da sempre interessato alla politica, studio Scienze Politiche all’Università Bocconi. Sono entrato in OriPo per avere una scusa per studiare in maniera approfondita ciò che prima era solo una passione da perseguire nel tempo libero.

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