Il sistema pensionistico italiano
Oggi, in Italia, vige un sistema pensionistico regolato dalla c.d. riforma Dini e dalla più che nota Legge Fornero.
La riforma Dini del 1995 ha sancito il passaggio da un sistema retributivo a un sistema contributivo. Prima della riforma, infatti, il modello retributivo prevedeva che la pensione fosse commisurata alle retribuzioni percepite negli ultimi anni di attività lavorativa. Nel modello contributivo, invece, c’è una correlazione diversa tra contributi versati e importo della pensione. Infatti, i contributi versati vengono convertiti in rendita tramite coefficienti di trasformazione, che si calcolano in base all’età di pensionamento e all’aspettativa di vita. In altre parole: nel sistema italiano, i lavoratori attuali pagano le pensioni dei pensionati attuali.
La riforma Fornero, nel 2011, ha invece modificato alcuni parametri nell’accesso alla pensione. Tra le altre modifiche, ha esteso di un anno l’accesso alle pensioni di anzianità e ha sancito l’allungamento graduale dell’età di pensionamento di vecchiaia di lavoratrici dipendenti private da 60 a 65 anni di età. Lo scopo della riforma era, intuitivamente, di equilibrare strutturalmente la spesa pensionistica pubblica, e di rendere tale sistema maggiormente sostenibile nel lungo periodo.
A seguito della riforma Fornero, la Lega ha portato avanti il trattamento Quota 100, valido per il triennio 2019-2021. Questo garantiva l’accesso alla pensione per i soggetti che hanno maturato 38 anni di contributi, con almeno 62 anni di età. Inoltre, con la Legge di Bilancio 2022, è stata introdotta una revisione del suddetto trattamento, valida come Quota 102. La modifica principale rispetto alla precedente proposta sta nel requisito anagrafico, pari a 64 anni di età.
Negli anni, prima delle sopra citate riforme, si sono susseguiti altri progetti di riforma portati avanti da diversi esponenti politici. Dal 1992, con la riforma Amato, il sistema ha virato verso un graduale allungamento dell’età pensionabile, seguito peraltro da Sacconi nel 2010. Dopo la riforma Dini nel 1995, nel 2004 è stata innalzata ulteriormente l’età pensionabile dei lavoratori dipendenti, mentre nel 2007 è stato introdotto il sistema delle quote, ovvero la somma tra età anagrafica e anzianità contributiva.
Le proposte di riforma della Politica
In vista delle imminenti politiche del 25 settembre, i partiti hanno posto le loro ipotesi di riforma del sistema pensionistico. Partiti sia di centrosinistra che di centrodestra hanno fatto le loro proposte in materia.
La coalizione di centrosinistra, con riferimento soprattutto al trainante Partito democratico, mira a favorire maggiore flessibilità nell’accesso alla pensione, con età di ingresso diminuita a 63 anni seguendo l’attuale regime contributivo. La coalizione propone anche un più favorevole accesso al pensionamento per coloro i quali abbiano svolto lavori gravosi o usuranti, o ancora lavori di cura in ambito familiare. In quest’ottica, il centrosinistra mira anche a rendere strutturale l’Ape sociale – con la volontà di estenderla agli autonomi – e Opzione donna. Le proposte sulle pensioni concludono con un rafforzamento della previdenza complementare.
Il programma del Movimento 5 stelle non contiene una proposta articolata in termini di riforma del sistema pensionistico, bensì obiettivi precisi con riferimento anche al sistema attualmente vigente. In particolar modo, il Movimento propone la pensione anticipata per le mamme lavoratrici, l’aumento delle pensioni di invalidità e la pensione anticipata a 63-64 anni. Ciò che tuttavia risulta rilevante nel programma è la distanza presa dalla legge Fornero. Emerge, infatti, la volontà di evitare il ritorno a quel sistema, con la proposta di ampliare le categorie dei lavori gravosi e usuranti, oltre che attraverso meccanismi di uscita flessibile dal mercato del lavoro.
Sorprende invece il programma del c.d. Terzo polo. Non sono presenti, infatti, proposte di riforma del sistema pensionistico. Compaiono, invece, indicazioni su temi connessi, direttamente o indirettamente, alle pensioni. In particolar modo, si fa riferimento alla previdenza complementare per gli under 35, con l’eliminazione della tassazione del 20%. In aggiunta, si sottolineano il gap tra le pensioni degli autonomi e quelle dei lavoratori indipendenti e l’aumento della spesa pensionistica negli anni. Questa, infatti, nel 2019 si attesta, secondo l’Eurostat al 13,2% del Pil, con riferimento alle sole pensioni previdenziali. L’aumento è dovuto a diversi fattori, tra cui il calo della natalità, da cui alcune proposte per rilanciarla.
Il centrodestra, infine, fa delle proposte piuttosto mirate con riferimento ad una riforma del sistema pensionistico. Il programma comune, infatti, prevede l’innalzamento di tutte le pensioni minime e maggior flessibilità in uscita dal mercato del lavoro nell’accesso alla pensione, con il fine di favorire il ricambio generazionale. Nello specifico dei singoli partiti, la Lega si è esposta particolarmente in materia. Sono del partito di Salvini, infatti, le proposte riguardo il pensionamento delle donne a 63 anni, rendere l’Opzione Donna strutturale e prorogare l’Ape sociale. Tuttavia, sono 2 le proposte del centrodestra che hanno destato maggiori tensioni, e che meritano di essere analizzate singolarmente, guardando ai costi e alle coperture proposte per queste: Quota 41 e l’innalzamento delle pensioni minime a 1000 euro.
Quota 41
Quota 41 è la proposta della Lega per riformare il sistema pensionistico italiano, la quale si fonda sul già noto sistema delle quote. Prevede, infatti, la possibilità di andare in pensione con 41 anni di contribuzione, a prescindere dall’età anagrafica.
Questa ipotesi oggi è già in vigore per alcune categorie di lavoratori, quali quelli che svolgono attività usuranti e i c.d. “lavoratori precoci”. In particolar modo, oggi è possibile accedere alla pensione anticipata che si basa sui contributi versati, la quale richiede però 42 anni e 10 mesi di versamenti per gli uomini, un anno in meno per le donne. Oltre però a queste categorie, anche i disoccupati che non percepiscono da almeno 3 mesi l’indennità di disoccupazione possono accedere a quota 41. In aggiunta, possono beneficiarne anche chi presta cure da almeno 6 mesi, chi convive con un soggetto portatore di handicap, invalidi civili e chi ha svolto, nuovamente, lavori usuranti negli ultimi anni antecedenti la pensione.
L’obiettivo della Lega di estendere a tutti Quota 41 ha dei costi notevoli per le casse dello Stato. L’Inps, a luglio 2021, ha stimato l’impatto che una misura di questo tipo avrebbe sui conti pubblici. In nove anni, l’aumento sarebbe di più di 7 miliardi di euro l’anno circa. Al 2030, l’ammontare complessivo della misura corrisponderebbe a circa 65 miliardi di euro. Un costo decisamente maggiore di quello che avrebbe, sempre secondo l’Inps, una potenziale proroga di Quota 100. Salvini ha affermato come i costi del primo anno di applicazione – pari secondo al leader della Lega a 4 miliardi di euro nel 2023, contro i circa 6 miliardi di euro stimati dall’Inps – sarebbero sostenibili semplicemente dimezzando le risorse destinate al reddito di cittadinanza.
Innalzamento delle pensioni minime
Forza Italia, diversamente, avanza una proposta dai duplici risvolti: l’innalzamento delle pensioni minime a 1000 euro. La volontà, in sostanza, è di aumentare l’importo sia delle pensioni di anzianità che di quelle di invalidità per tutti, anche per coloro i quali non abbiano potuto pagare i contributi in passato, per 13 mensilità. Il duplice risvolto della proposta sta nei costi della stessa e nelle implicazioni “morali” che questa inevitabilmente implica.
Quanto ai costi, alcune stime sono state già poste in essere. Quello che emerge, guardando alle pensioni erogate oggi e ai pensionati oggi beneficiari degli assegni, è che una proposta di questo tipo aumenterebbe la spesa pensionistica italiana di circa 30 miliardi di euro. Quanto alle coperture, l’ex premier ha dichiarato di avere in mente diverse fonti di reddito da cui raccogliere le risorse necessarie per finanziare la proposta. In particolar modo, cita “4 miliardi dalla riformulazione del reddito di cittadinanza, 10 miliardi da un realistico intervento di spending review, il resto dal riordino della ‘tax expenditures’, laddove si traducono in forme di sostanziale elusione.”
Quanto alle implicazioni della proposta, il risvolto è evidente. L’idea di apportare questa modifica anche ai soggetti che non hanno mai versato contributi è fortemente distorsiva per il sistema. Garantire una pensione minima a mille euro anche a chi non ha mai versato contributi rischia di essere un incentivo a non pagarli, facendo leva sulla minima mensilità comunque garantita. Indirettamente, ciò rischia di favorire il lavoro irregolare
Punti in comune e prospettive future
Nonostante vi siano distanze circa la provenienza politica delle proposte, emergono con evidenza alcuni punti in comune. Fra tutti, la volontà di potenziare la flessibilità in uscita. Dal centrodestra con forme di pensionamento anticipate, al centrosinistra con un abbassamento dell’età pensionabile. Non solo: sebbene le forze politiche siano opposte, emerge anche la volontà comune di rendere strutturali Opzione Donna e Ape sociale. La prima, che consente di andare in pensione con 35 anni di contributi a 58/59 anni di età. La seconda, che consente il pensionamento a 63 anni con 36 anni di contributi – 30 anni per invalidi e disoccupati. La campagna elettorale toccherà tanti temi, e quello delle pensioni non farà eccezione.
*Crediti foto: Tiago Muraro, via Unsplash