Il 14 ottobre, con un colpo di coda senza precedenti, la consulta ha stabilito che ogni atto dell’Unione europea deve essere conforme alla legge polacca. Tradotto: la Polonia disconosce il primato del diritto Ue sulle leggi nazionali, ossia il principio della gerarchia delle fonti su cui è imperniato il rapporto tra Stati nazionali e Ue. Lo strappo non è solo l’ultimo in ordine di tempo, ma anche il più grave. Motivo per cui si è tornato a discutere della – invero poco probabile – possibilità di un’uscita della Polonia dal perimetro dell’Unione, visti i continui attriti con i principi fondamentali comunitari.
La mia giustizia non è la tua
La decisione di non riconoscere il primato del diritto dell’Ue sulle leggi nazionali è solo l’ultimo tassello di un domino iniziato diversi anni fa e di cui la decisione della consulta polacca non sembra neppure rappresentare il finale. L’inizio è però databile: 2015, anno di vittoria alle elezioni del partito di destra estrema Diritto e Giustizia (PiS), e anno che segna l’avvento di una graduale erosione di alcuni cardini democratici, tra cui l’indipendenza della magistratura.
Una delle prime riforme attuate dal governo conservatore polacco guidato da Mateusz Morawiecki ha riguardato, infatti, la composizione della corte costituzionale, in cui sono stati nominati membri ritenuti vicini al partito di governo, come già rilevato nel 2016 dai giuristi del Consiglio d’Europa. Sulla legittimità della composizione della corte polacca è tornato anche il Parlamento Ue nelle scorse settimane dopo il recente disconoscimento della supremazia delle norme comunitarie: con una risoluzione votata a larga maggioranza, i deputati europei hanno sottolineato che il “Tribunale costituzionale polacco manca di validità giuridica e indipendenza ed è privo di qualifiche per interpretare la costituzione del Paese”.
Segno dell’ineluttabile logorio dei rapporti tra Polonia e Ue, a cui ha contribuito il progressivo smantellamento delle prerogative essenziali del sistema giudiziario polacco operato almeno a partire dal 2017. In quell’anno veniva istituita in seno alla Corte Suprema polacca una sezione disciplinare abilitata a indagare sugli errori giudiziari, e per questo ritenuta in grado di produrre delle storture inaccettabili in uno stato di diritto, come il controllo politico sulla magistratura. Il lungo braccio di ferro sulla sua delimitazione si è concluso con una multa monstre inferta dalla Ue ai danni della Polonia, condannata al pagamento di un milione di euro al giorno per avere ignorato la misura cautelare imposta dalla Corte di Giustizia lo scorso luglio, quando è stata richiesta la sospensione precauzionale delle attività dell’organo. Le motivazioni della multa sono emblematiche: “L’osservanza delle misure cautelari disposte il 14 luglio è necessaria al fine di evitare un danno grave e irreparabile all’ordinamento giuridico dell’Unione europea e ai valori sui quali tale Unione si fonda, in particolare quello dello Stato di diritto“.
Messo in pericolo non solo dalle riforme della giustizia – intaccata nella sua indipendenza anche dalla facoltà concessa nel 2020 al governo di punire i giudici che ne contestavano le riforme – ma anche a colpi di accetta sull’informazione, i diritti civili e sociali e il contrasto all’immigrazione, in queste ore tornata centrale dopo le tensioni al confine con la Bielorussia.
Politiche migratorie e diritti negati
La sintesi delle spinte reazionarie della Polonia di Morawiecki è nelle immagini che arrivano dalla frontiera con la Bielorussia, dove nelle ultime ore si sono ammassati migliaia di migranti sospettati di essere usati come arma di ricatto da Alexander Lukašenko, dittatore bielorusso: filo spinato e dodicimila agenti per sbarrare l’ingresso della Fortezza Europa, da parte sua dimostratasi ancora una volta fragile e avvitata su se stessa nella gestione dei flussi. A breve, dopo il via libera del Parlamento polacco, in Polonia sorgerà anche un muro di 110 chilometri lungo la frontiera orientale. Ed è da capire se – come accennato dalle parole aperturiste del presidente del consiglio europeo Michel – sarà eretto con il consenso dell’Ue. Nelle ultime ore, invece, a rimarcare la politica di chiusura polacca, ci sono stati già 50 arresti tra chi è riuscito a sfondare le barricate. Cui si aggiunge il rifiuto di concedere l’asilo apposto dallo stato polacco ai richiedenti bielorussi tra fine agosto e inizio settembre, quando al confine è stato dichiarato anche lo stato d’emergenza che limita l’accesso ad attivisti e media.
Le politiche migratorie polacche sono lo specchio della deriva autoritaria del Paese. Che erige nuovi muri e contestualmente si chiude al proprio interno, cercando di reprimere il dissenso che emerge anche dalle fila di attivisti e cittadini. Nel 2017 Amnesty International ha acceso un faro sulle repressioni delle manifestazioni di piazza contro le riforme di stampo autoritario di Varsavia, continuate in questi anni e acuitasi con l’avvento della pandemia, secondo Amnesty sfruttata per punire il dissenso oltre il necessario per salvaguardare la salute pubblica. Tra le rivendicazioni portate in piazza, oltre all’indipendenza della magistratura, anche quelle contro la recente riforma sull’aborto, reso pressoché illegale anche in casi di gravi complicanze. Negli scorsi giorni, proprio a causa del rifiuto dei medici di praticare un aborto nonostante una grave malformazione del feto, una donna di 30 anni è morta nella città di Pszczyna, innescando nuove proteste per quella che è stata considerata la prima vittima della riforma.
Sul terreno dei diritti civili lo scontro ha poi riguardato i diritti Lgbtq+, osteggiati da diversi provvedimenti. Tra i più contestati, una serie di risoluzioni con cui un centinaio di regioni polacche si sono dichiarate libere dalla “ideologia Lgbtq+”, innescando la reazione della Ue. Contro la presa di posizione polacca si è scagliato dapprima il Parlamento europeo – che ha votato una risoluzione con cui dichiara formalmente l’Ue “zona di libertà Lgbtiq” – poi la Commissione, che ha aperto una procedura di infrazione per violazione dei diritti della comunità Lgbt.
La lista che colloca la Polonia su un piano antitetico rispetto ai principi Ue si fa di giorno in giorno più lunga, e annovera al suo interno le distorsioni rispetto alla libertà di informazione che di recente il Parlemento europeo ha chiesto di rispettare. L’acme si è raggiunto con l’introduzione nel 2016 della legge sui mezzi d’informazione, con cui si è previsto che fosse il Ministero del Tesoro a nominare i dirigenti di tv e radio pubbliche. Lo scorso anno, invece, l’Office for Democratic Institutions and Human Rights ha monitorato le elezioni presidenziali vinte dal nazionalista Andrzej Duda, arrivando ad affermare che “la tv pubblica ha fallito nel suo dovere legale di fornire un servizio equilibrato e imparziale, e ha rappresentato il principale sfidante di Duda come un pericolo per i valori polacchi”. Aggiungendo anche che “alcuni servizi erano carichi di sfumature xenofobe e antisemite”.
Polexit?
Nelle ultime settimane, a causa dell’acuirsi dello scontro con l’Ue, si sono risollevate le voci sulla Polexit, l’uscita della Polonia dal perimetro europeo, che è invero molto lontana. Più vicina, secondo il direttore di Limes Lucio Caracciolo, è l’ipotesi che resterà per riaffermarvi la propria sovranità ed ergersi a campione degli Stati membri che escludono il principio della progressiva integrazione continentale. E questo potrebbe rappresentare un problema per la stessa Ue.
Decisioni drastiche come le procedure di infrazione, con cui l’Unione può pressare gli Stati membri affinché si uniformino alla visione Ue, o le norme previste dall’art 7 del Trattato Ue che consente la sospensione di alcuni diritti degli stati – come quello di votare in Consiglio – in caso di violazioni gravi e persistenti, infatti, possono essere adottate solo all’unanimità. Ma quanto a violazione dello stato di diritto la Polonia vanta la vicinanza dell’Ungheria di Orban. Motivo per cui il Parlamento Europeo ha evidenziato che “l’incapacità del Consiglio di applicare efficacemente l’articolo 7 continua a compromettere l’integrità dei valori comuni europei, la fiducia reciproca e la credibilità dell’Unione nel suo complesso”. La mancanza di strumenti per respingere uno Stato fuori dal perimetro Ue, però, non è l’unico elemento che fa protendere verso il remain polacco. Secondo recenti sondaggi, l’80 per cento dei cittadini polacchi è soddisfatto dell’ingresso della Polonia in Ue, che rimane ancora oggi il Paese più finanziato con i fondi comunitari, 127 miliardi dal suo ingresso e sino al 2020.
*immagine in evidenza: Photo by Christian Lue on Unsplash