Energia e ambiente

La crisi della diplomazia climatica: impasse globale e sfide della transizione energetica in aumento

In uno dei momenti storici più ardui per il multilateralismo dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, gli obiettivi riguardanti la transizione energetica stabiliti nell’ultimo decennio sembrano naufragare in un clima di crescente scetticismo.

La comunità scientifica è concorde sulla necessità a livello globale di un cambio di passo nell’approccio alla crisi climatica e, soprattutto, segnalano l’urgenza di un intervento decisivo. Tuttavia, gli sforzi risultano insufficienti e in ritardo, proprio nel momento in cui ci sarebbe maggiormente bisogno di azioni concrete da parte di tutta la comunità internazionale. Il rischio dell’inazione è quello di compromettere anche quanto già realizzato fino a oggi sia in fatto di accordi internazionali, sia in fatto di policy concrete.  

COP28: il collasso del multilateralismo climatico

Nel 2023 l’incontro annuale dei Paesi aderenti alla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (COP) di Dubai fu segnata da un lungo dibattito riguardante la terminologia da adottare nella dichiarazione finale. Alcuni Stati sostenevano l’inserimento dell’espressione “phase out” (ossia un’eliminazione graduale dei combustibili fossili) e chi invece spingeva per la più moderata espressione “transition away” (ossia ridurne l’utilizzo). Alla fine la spuntarono i secondi, riuscendo anche a identificare, in una formula ambigua, i combustibili fossili come uno dei mezzi da utilizzare durante la transizione.

Lo stesso Sultan Al-Jaber, delegato degli Emirati Arabi Uniti (Paese ospitante), anticipò le intenzioni dei Paesi produttori di combustibili fossili riguardanti la strategia da adottare nel lungo periodo. Il delegato dichiarò che il completo abbandono dei combustibili fossili durante il processo di transizione non fosse possibile a causa del crescente fabbisogno energetico del pianeta.  

In un primo momento, i progetti di diversificazione economica dei Paesi del Golfo (uno su tutti la Vision2030 dell’Arabia Saudita) sembravano poter agire da driver della transizione verso le rinnovabili. In realtà, la sensazione è che, in virtù della necessità di finanziare questi ambiziosi progetti, essi non potranno e non vorranno privarsi in maniera significativa degli introiti generati dai combustibili fossili, per lo meno non fino a quando saranno costretti a farlo per una pressione più incisiva e decisiva del resto della comunità internazionale.

COP29 e G20: le polemiche e le richieste dei Paesi emergenti 

Sulla falsariga della COP28, la conferenza di Baku in Azerbaijan (COP29) è stata segnata dallo scetticismo, alimentato altresì dalla contemporanea decisione di British Petroleum di ridimensionare gli obiettivi di riduzione della protezione petrolifera, che a fine decennio continuerà ad attestarsi a due milioni di barili al giorno. Va segnalato che le polemiche hanno caratterizzato le COP più recenti, proprio poiché per due anni consecutivi, la Conferenza si è svolta in Paesi così dipendenti dai combustibili fossili da condizionarne i lavori. 

Il tema centrale delle recenti COP era la richiesta da parte dei Paesi in via di sviluppo di un maggior supporto economico da parte dei Paesi sviluppati, in modo da agevolare il processo di transizione e renderlo equo e condiviso a livello globale. Tuttavia, la cifra stabilita fu ben al di sotto dei 1.300 miliardi di dollari all’anno richiesti. Anche durante la riunione del G20 di Rio de Janeiro non si è riusciti a raggiungere un accordo su tale tematica, a causa della differenza di vedute riguardo l’entità del contributo dei paesi sviluppati. La necessità impellente rimane quella di aumentare i cosiddetti NDC, ossia i contributi determinati a livello nazionale, per contribuire realmente alla transizione anche nei Paesi in via di sviluppo.

Non si tratta di negoziare un nuovo trattato, ma di passare dalle promesse alla realizzazione di quanto sottoscritto dai Paesi coinvolti nelle COP, anche nel tentativo di mantenere vivo il multilateralismo in un momento dominato dal disimpegno statunitense. Le politiche climatiche soffrono di uno storico tallone d’Achille che deriva anche dalla natura non vincolante del documento finale firmato al termine dei lavori dalle parti coinvolte.

Alla vigilia della COP30 di Belém: tra speranze e disillusione

Tra il 10 e il 21 novembre 2025 gli occhi degli osservatori internazionali saranno puntati sui lavori della Conferenza di Bélem: il baricentro della diplomazia climatica si sposta per la prima volta nel cuore dell’Amazzonia, un luogo che testimonia la rilevanza anche simbolica dell’appuntamento.

Il Brasile, storicamente protagonista nel campo della diplomazia climatica, punta a ridefinire il ruolo dei Paesi emergenti, non più percepiti come meri destinatari di risorse ma come protagonisti dello sviluppo di soluzioni globali. Brasília sta promuovendo tre dossier chiave: la protezione delle foreste tropicali; il rilancio dell’Action Agenda per l’attuazione concreta degli Accordi di Parigi (l’accordo internazionale sul clima che mira a limitare l’aumento della temperatura media globale al di sotto dei 2°C rispetto ai livelli preindustriali, puntando a 1.5°C), e nuove forme di finanza climatica, tra cui il nascente Tropical Forests Forever Facility, che intende trasformare la conservazione forestale in una vera opportunità di investimento.

La situazione del Brasile

Dopo anni di aumento del disboscamento sotto il governo Bolsonaro, il 2023 e il 2024 hanno segnato un’inversione di tendenza: secondo i dati del sistema DETER (il Sistema di Rilevamento della Deforestazione in Tempo Reale, gestito dall’Istituto Nazionale di Ricerche Spaziali – INPE del Brasile, che monitora i tagli della vegetazione), la distruzione della foresta amazzonica è diminuita di oltre il 50% rispetto ai picchi del 2021.

Nonostante i segnali incoraggianti, le pressioni interne restano elevate, con i governatori degli stati amazzonici che chiedono più risorse per lo sviluppo e con una parte del Parlamento ancora schierata a favore dell’espansione agroindustriale. Sullo sfondo, le elezioni presidenziali del 2026 rischiano di rendere la strategia climatica di Luiz Inácio Lula da Silva, che ha già annunciato la sua ricandidatura, che però resta vulnerabile: un successo a Belém potrebbe rafforzarne la posizione, ma qualsiasi imprevisto potrebbe alimentare le forze più scettiche sulla transizione ecologica.

Come si realizza la transizione verde?   

Se l’abbandono dei combustibili fossili sembra improbabile nel breve periodo, specialmente se la crisi dell’industria automobilistica europea dovesse costringere a un ripensamento del divieto alla vendita di veicoli a motore termico a partire dal 2035, negli ultimi anni sono emerse possibili alternative per accelerare la transizione verde. Tra queste troviamo il carbon capture, l’energia nucleare e un utilizzo più ampio delle rinnovabili. Tuttavia, queste proposte hanno in comune problemi di vario tipo che le rendono solo parzialmente accessibili e incapaci di supportare da sole gli oneri della transizione, soprattutto nel breve e medio periodo. 

Le operazioni di carbon capture e storage (CCS), che consistono nell’isolare la CO2 dalle fonti industriali per iniettarla in formazioni geologiche sotterranee permanenti, sono senz’altro un’opzione affascinante, ma comportano ancora costi troppo alti e problemi operativi, come perdite di CO2 nei siti di raccolta che rischiano di contaminare le risorse idriche circostanti.

Il nucleare, negli ultimi anni, si è fatto sempre più spazio anche nelle agende dei partiti politici, ma la prospettiva di non poterne beneficiare nel breve periodo continua a frenare i progetti. Si continua a prediligere le fonti energetiche che offrono benefici immediati data la domanda energetica in continua espansione.

Le rinnovabili sono un’alternativa più concreta, poiché già da tempo fanno parte del paniere energetico europeo; infatti, nella prima metà del 2024 hanno prodotto la metà dell’energia elettrica nell’Unione. 

Il ruolo della tecnologia e la nuova dipendenza europea dalla Cina

Le fonti rinnovabili rischiano di diventare oggetto delle politiche commerciali dell’Ue che, dopo aver imposto dazi sull’importazione dei veicoli elettrici dalla Cina per salvaguardare le industrie europee in una logica protezionistica, potrebbero colpire alcuni settori fondamentali come quello dei pannelli solari, con Pechino che rappresenta l’80% delle esportazioni a livello mondiale. Ciò vale anche per l’energia eolica, settore nel quale la Cina domina il mercato, avendo realizzato investimenti per 50 miliardi di dollari negli ultimi quindici anni, con un’impennata dopo la pandemia, con gli investimenti nelle rinnovabili che sono addirittura raddoppiati.  

Rischia dunque di alimentare sempre più preoccupazioni in Occidente la prospettiva di una transizione che accresca la dipendenza del vecchio continente dal gigante asiatico, soprattutto nell’ottica di un progressivo derisking auspicato dalla Commissione Europea, anche se questa potrebbe essere una via per portare a termine parte degli obiettivi del Green Deal.

La seconda Commissione Von der Leyen ha reiterato il ruolo fondamentale del Green Deal – come suggerito dal rapporto Draghi – tentando di ergersi come leader della transizione. Tuttavia, l’Europa sembra essere l’unica potenza rimasta salda nel perseguire un cambiamento che richiederebbe la partecipazione degli attori globali più importanti.

Il ritorno di Donald Trump: verso un completo disimpegno USA   

L’estate 2025 in Europa ha fatto registrare temperature record in diversi Paesi soprattutto nel mese di giugno, con alcune regioni colpite da una siccità perdurante. Contestualmente, l’aumento delle temperature dell’acqua nel Golfo del Messico nel 2024 aveva causato gli uragani Helene e Milton che devastarono la Florida e recentemente Haiti e la Giamaica sono state colpite dall’uragano Melissa, di categoria 5, con i morti che si contano già a decine e ingenti danni alle già fragili economie dei due Paesi.

Secondo il report del programma Global Carbon Budget del 2024, pubblicato in collaborazione con l’Università di Exeter, i Paesi del G20 hanno aumentato le loro emissioni di CO2 nel 2023 e, malgrado gli sforzi compiuti in alcuni settori per il passaggio all’energia pulita, i tempi della transizione sono lenti e, allo stato attuale, si rischia un aumento della temperatura tra i 2,6°C e i 3,1°C, ben al di sopra della soglia critica dei C stabilita dagli Accordi di Parigi.  

Si inserisce in questo quadro il ritorno alla Casa Bianca di Donald Trump, che si sta traducendo in una sfida al multilateralismo senza precedenti, come già si temeva prima delle elezioni, in virtù delle politiche perseguite durante il suo primo mandato alla Presidenza. Il tycoon, tra i primi provvedimenti, ha subito firmato un ordine esecutivo per uscire dagli Accordi sopra citati per la seconda volta; nonostante proprio a gennaio 2025 si stesse assistendo ad un’emergenza legata agli incendi che hanno colpito la città di Los Angeles.

L’agenda del nuovo governo statunitense sta vanificando gli ingenti investimenti effettuati da Joe Biden attraverso l’Inflation Reduction Act, avendo revocato l’obiettivo di alimentare con energia elettrica metà delle automobili prodotte entro il 2030. Nello stesso discorso d’insediamento, il Presidente Trump era stato perentorio riguardo l’intenzione di riprendere e ampliare le operazioni di trivellazione del suolo al fine di ritornare alle politiche energetiche tradizionali.

Altri ordini esecutivi, tra cui uno che reintroduce le cannucce di plastica sul mercato, hanno fornito la conferma del negazionismo climatico dell’amministrazione repubblicana. A tutto ciò si aggiungono gli effetti degli ingenti tagli dell’amministrazione – prima dello smantellamento di USAID – che da sola garantiva il 10% dei finanziamenti climatici globali.  

Cè ancora spazio per le politiche verdi?

In un mondo dominato dalle tensioni, le politiche energetiche rischiano di essere vittima delle guerre commerciali al centro del dibattito internazionale. A differenza di quanto sostenuto dalla Commissione europea e dai partiti progressisti, che considerano la transizione verde e il Green Deal come il principale motore di innovazione e crescita economica, le agende dei partiti conservatori sembrano voler intraprendere la strada tracciata dall’amministrazione statunitense, con gli accordi climatici visti come una limitazione alla competitività dei propri mercati.

L’incertezza globale in costante aumento ha un effetto diretto sui costi della transizione, con il conflitto in Ucraina che prosegue dopo quasi quattro anni e le tensioni latenti in Medio Oriente che hanno prodotto solo parzialmente l’auspicata diversificazione delle fonti di approvvigionamento, la stessa Europa ha puntato più sull’approfondimento delle partnership con altri Paesi.  

In questo quadro, la COP30 può rappresentare un punto di svolta nel metodo più che negli obiettivi. Un successo operativo nel rilanciare la cooperazione sulle tematiche verdi potrebbe riaccendere la fiducia dei Paesi e dei cittadini. Il futuro dei vertici ONU sul clima dipenderà meno dalle firme dei leader e più dalla mobilitazione congiunta di governi, città, imprese e società civile: una COP dell’attuazione.

*Immagine di copertina: Immagine generata via OpenAI ChatGPT (modello GPT-5).

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