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Tra riformismo e conservatorismo, la rivoluzione iraniana 40 anni dopo

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Il 1° febbraio 1979 l’Ayatollah Khomeini metteva piede in terra iraniana dopo quattordici anni d’esilio. Ad attenderlo a Tehran c’era una folla infervorata di milioni di persone. Dieci giorni più tardi, l’11 febbraio, le forze armate dichiaravano la loro neutralità: il regime autocratico dello Scià, appoggiato dagli Stati Uniti, veniva ufficialmente destituito. Si concludeva, o forse iniziava, una rivoluzione che prese in contropiede la comunità internazionale.

Del resto, a partire dagli anni ’60 l’ambizioso progetto di riforme economiche, politiche e sociali dello Scià Mohammad Reza Pahlavi aveva messo in moto il settore industriale del Paese, promuovendo anche l’estensione delle infrastrutture, oltre a investire su programmi di educazione e sanità pubblica. In una generazione appena, la società agraria, conservatrice e tradizionale iraniana era divenuta industriale, moderna e urbana. Ma a rimanere inalterati erano il malgoverno e la corruzione.

Furono la contrazione economica del 1977 e il conseguente aumento della disoccupazione e dell’inflazione a dare al popolo il pretesto per scatenare le rivolte contro il brutale e repressivo regime di Pahlavi. Ma ben al di là di qualsiasi argomentazione di natura economica, ciò a cui gli iraniani si opponevano era la deriva liberale delle riforme sociali intraprese dallo Scià, tra le quali si inserivano ad esempio sforzi per promuovere l’emancipazione femminile. La costituzione della Repubblica Islamica, primo stato islamico moderno, pose fine proprio a quelli che tanti percepivano essere gli “eccessi occidentali” del governo dello Scià.

Frutto della rivoluzione, la peculiare configurazione del sistema politico iraniano è espressione di uno stato confessionale ma repubblicano. Infatti, se è vero che Khomeini ottenne il controllo del rinnovamento in favore dell’establishment sciita, è altrettanto vero che a combattere per la destituzione dello Scià vi era anche una polifonia di voci secolari. I nazionalisti insistevano affinché la dittatura si trasformasse in democrazia, mentre l’ala comunista voleva instaurare un governo socialista. Si giunse a un compromesso: le fondamenta costituzionali si basarono esclusivamente sui principi dell’islam sciita, ma furono accompagnate dalla creazione di istituzioni di natura repubblicana. Un binomio esemplificato dalla presenza della Guida suprema, la più alta carica politica e religiosa, e del Presidente, capo del governo. A rappresentarli oggi sono rispettivamente l’Ayatollah Khameini e Hassan Rouhani.

Riformisti al potere, anzi no

A 40 anni dalla rivoluzione che ha unito il Paese contro lo Scià, gli iraniani sembrano aver perso la coesione che ha permesso loro di sconfiggere il regime di Pahlavi. In particolare, è la linea che divide conservatori radicali e riformisti moderati a ispessirsi sempre di più. I primi restano legati ai principi della tradizione islamica e agli slogan anti-occidentali che hanno guidato la rivoluzione, mentre i secondi tentano di promuovere maggiore trasparenza economica e protezione delle libertà individuali.

Questa dicotomia di forze politiche rispecchia il ricambio generazionale degli ultimi anni. I giovani iraniani di oggi infatti non sono animati dal fervore rivoluzionario e dagli ideali che hanno infiammato le loro famiglie. È in questo quadro che va inserito l’impasse che attanaglia la politica interna di Tehran: come riconciliare gli imperativi ideologici della rivoluzione con i requisiti per un governo efficace e diplomatico? I primi, sostenuti a gran voce dagli irriducibili conservatori, plasmano ancora la politica estera, spesso rappresentando un ostacolo per i riformisti al potere.

Gli sforzi di Rouhani, eletto per la prima volta nel 2013 sulla base di un’agenda di governo che prometteva riforme economiche e il coinvolgimento internazionale dell’Iran, sinora sono stati spesso sabotati dai Guardiani della Rivoluzione. Preposti alla protezione della Repubblica Islamica dalle interferenze estere, i Pasdaran spingono per un governo ben più radicale di quello attuale. Proprio in segno di protesta contro le continue pressioni che essi esercitano nei confronti dell’esecutivo, a fine febbraio il Ministro degli esteri Mohammad Javad Zarif si è licenziato dall’incarico, sebbene le sue dimissioni siano state rifiutate dal Presidente Rouhani.

La corsa a ostacoli dell’apertura

Zarif, profondo conoscitore dell’occidente e voce in difesa del pragmatismo, è il padrino dell’accordo sul nucleare, attraverso il quale Tehran si è impegnato a limitare le attività di arricchimento dell’uranio in cambio della cessazione delle sanzioni economiche imposte da Stati Uniti, Unione Europea e Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Al grido rivoltoso di “morte all’America”, i rivali politici di Rouhani sostengono che tale compromesso prevede troppe concessioni rispetto alla contropartita offerta. Contropartita che secondo i conservatori lede la sovranità nazionale e snatura i valori rivoluzionari. Le critiche si sono inevitabilmente intensificate a partire dallo scorso novembre, quando gli Stati Uniti, usciti di scena dall’accordo, hanno effettivamente imposto nuove sanzioni: l’Iran mantiene fede all’impegno preso, ma in tanti si domandano a che pro.

A rendere il solco tra moderati e ultraconservatori sempre più profondo c’è anche il dibattito in corso in merito all’adozione della regolamentazione internazionale sul contrasto al finanziamento dei movimenti terroristici. Tale passo, che farebbe seguito alla legge sull’anti-riciclaggio approvata a gennaio, aiuterebbe l’Iran a uscire dalla lista nera degli sponsor del terrorismo, facilitando così il suo ritorno nel mercato finanziario internazionale. Ancora una volta però, gli sforzi del governo sbattono contro il muro dell’opposizione. I politici conservatori temono che adempiere alle regole del Fatf (Financial action task force) pregiudicherebbe il sostegno di Tehran ad Hamas e Hezbollah, suoi alleati, dando indirettamente agli Stati Uniti un’ulteriore opportunità per influenzare l’economia iraniana.

Speranze infrante

Il quadro si complica se si considera che per evitare altre fratture con i radicali, Rouhani si è trovato costretto a calmare i toni rispetto a tante promesse elettorali. Risultato: oltre a doversi continuamente scontrare con l’opposizione, il Presidente iraniano ha anche compromesso il suo rapporto con i propri sostenitori, avendo disatteso le loro aspettative. Il mandato per cui è stato scelto dagli iraniani includeva una maggiore protezione delle libertà politiche e sociali dei cittadini nonché una più estesa apertura alla società civile, da realizzare soprattutto attraverso la facilitazione dell’accesso a Internet e della circolazione dell’informazione. Al suo sesto anno da Presidente ben poco di tutto questo pare essersi realizzato.

Mentre la corruzione resta un grave problema, in tanti criticano Rouhani anche per non aver dato sufficiente slancio all’economia. Nel frattempo, la reintroduzione delle sanzioni americane ha abbattuto il valore del rial e l’inflazione, rampante, ha raggiunto il 40% lo scorso novembre. Negli ultimi mesi, migliaia di operai, insegnanti, negozianti, camionisti e contadini hanno invaso le piazze con le loro manifestazioni di protesta per il carovita.

Forse il nemico di Tehran non va ricercato a occidente. Forse il suo più pericoloso antagonista si trova proprio in Iran. È quel divario tra ideali rivoluzionari e spinte riformiste che tiene prigioniero il cambiamento.

Rebecca Cambrini
Nata a Pesaro, porto con me anche un po' di Sydney mentre frequento il terzo anno di Scienze Politiche all’Università Bocconi. Due cose non possono mancare nella mia vita: il mare e un occhio critico sul mondo.

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