Il caporalato è da considerarsi ancora più importante a causa della centralità del settore agricolo nel nostro Paese: Il “Made in Italy” agricolo produce da solo oltre il 2% del Pil, il doppio dell’1.1% che osserviamo a livello europeo. L’Italia è, infatti, il leader in Unione Europea (Ue) nella produzione di ben 17 dei principali prodotti agricoli, mentre si pone tra i primi tre produttori in ben 41 casi secondo un’analisi della Fondazione Edison.
Nonostante la centralità di questo settore nel nostro sistema economico e il ruolo fondamentale che i braccianti stagionali hanno in esso, questi sono spesso vittime di vessazioni e sfruttamento. Secondo i dati dell’Osservatorio Placido Rizzotto (Opr), sono circa 430.000 i lavoratori agricoli a rischio di caporalato in Italia. Di questi oltre 132.000 si trovano in condizione di grave vulnerabilità sociale e sofferenza occupazionale, risultando ancora più proni a varie forme di sfruttamento ed irregolarità. Il tasso di irregolarità in agricoltura è, infatti, estremamente alto, raggiungendo picchi del 39% secondo l’Opr.
Cos’è il caporalato?
Il caporalato è, citando la Treccani, una “forma illegale di reclutamento e organizzazione della manodopera […] attraverso intermediari (caporali) che assumono, per conto dell’imprenditore e percependo una tangente, operai giornalieri, al di fuori dei normali canali di collocamento e senza rispettare le tariffe contrattuali sui salari minimi”. Secondo un resoconto dell’Opr, i lavoratori che si trovano in tale situazione di sfruttamento ricevono salari inferiori del 50% rispetto a quanto previsto dai contratti nazionali (che prevedono in media 47 euro giornalieri), arrivando a guadagnare 1 euro all’ora nei casi più gravi. Al contempo, questi lavoratori non godono di nessun diritto e sono costretti dal caporale a pagare per poter accedere a servizi basici, come cibo e acqua (con prezzi che arrivano a 1,50 euro per mezzo litro d’acqua e 3,50 euro per un panino) durante la giornata di lavoro, che mediamente dura tra le 8 e le 12 ore. È inoltre comune vedere pagamenti parziali o in ritardo, come sottolinea la Flai-Cgil, la sezione della Cgil dedicata ai lavoratori agricoli.
Le cause
Nel 2016 le associazioni daSud, Terra! e terrelibere.org hanno redatto un report in cui vengono indicate alcune delle principali cause del caporalato in territorio italiano.
In particolare, il rapporto indica tra gli elementi fondamentali la mancanza di sistemi ufficiali di reclutamento che funzionino in maniera efficace, l’isolamento dei campi di raccolta, la frammentazione del sistema produttivo e la sua inadeguatezza nel rappresentare gli interessi dei piccoli agricoltori, e una elevata domanda di forza lavoro, tipica delle stagioni di raccolta. Il documento indica quindi i caporali come un anello che copre un ruolo di intermediazione che risulta necessario per alcune mancanze strutturali del settore.
Infatti, benché esistano, i centri per l’impiego sono considerati inutili in quanto poco utilizzati dalla maggior parte degli imprenditori rispetto ai caporali. Secondo quello che racconta Angelo Cleopazzo, impegnato nella lotta allo sfruttamento nel Salento da oltre dieci anni con l’associazione Diritti a Sud, questi centri sono degli istituti molto latenti e molto fragili. “Non essendoci meccanismi reali messi a disposizione dallo Stato per incrociare domanda ed offerta di lavoro in un tempo utile per consentire ai prodotti di essere raccolti e non rimanere a marcire sui campi, […] purtroppo l’agenzia necessaria in questo momento storico è il caporalato”. Questo fenomeno permette all’imprenditore una organizzazione del lavoro veloce ed efficace, evitando le costrizioni burocratiche e tagliando i costi di produzione grazie allo sfruttamento della manodopera. In particolare, quest’ultimo punto risulta fondamentale se si considera la pressione che la Grande Distribuzione Organizzata (Gdo) impone sugli imprenditori tramite il meccanismo dell’asta a doppio ribasso. Il report “Filiera Sporca” del 2016 offre uno spaccato di questa situazione grazie a un’analisi del mercato delle arance. Infatti, il costo di produzione di un chilo di arance viene stimato dal rapporto intorno ai 63/71 centesimi, mentre la Gdo generalmente pagherebbe una cifra compresa tra i 70 e gli 80 centesimi, lasciando il produttore con dei margini di guadagno estremamente limitati.
Questo fenomeno è anche collegato alla debolezza delle Organizzazioni dei Produttori (Op), che porta all’incapacità di tutelare in modo adeguato gli interessi dei piccoli produttori, diminuendone il potere contrattuale e causando una sempre maggiore pressione da parte delle aziende di grande distribuzione. Secondo uno studio di Oxfam Italia e Terra!, la frammentazione dei produttori fa sì che i prezzi siano poi “dipendenti da fattori esterni come il clima o la qualità del raccolto, piuttosto che essere equamente stabiliti per tutelare produttori e lavoratori”. Questo succede meno al Nord Italia, dove le Op sono più stabili e riescono a garantire prezzi equi per i produttori, che in questo modo non sono obbligati ad affidarsi a manodopera sottocosto per riuscire a rientrare nei parametri di vendita.
Inoltre, l’isolamento dei campi porta alla necessità per i lavoratori di spostarsi anche per lunghe distanze per poter raggiungere il sito di raccolta. Questo, unito alla mancanza di un sistema di trasporto dei braccianti nelle campagne da parte del settore pubblico, ha portato ad una sorta di monopolio del trasporto nelle zone agricole. In questo modo, i lavoratori più fragili (non provvisti di mezzi di trasporto autonomi) sono costretti ad affidarsi al caporalato per poter essere portati ai campi, mentre i caporali possono estorcere una parte della (già misera) paga ai braccianti in cambio del trasporto. Il già citato studio dell’Opr descrive in particolare tariffe che arrivano anche a 5 euro, o un quinto della paga giornaliera del bracciante. Inoltre, date le condizioni di sicurezza inesistenti durante il trasporto, gli episodi tragici sono frequenti: nell’agosto del 2018 nel giro di due giorni sono avvenuti ben due incidenti a soli 50 km di distanza l’uno dall’altro in cui, in circostanze simili, hanno perso la vita complessivamente 16 braccianti mentre in 8 sono rimasti feriti. Cleopazzo sottolinea come gli imprenditori “preferiscono interloquire con una sola persona, che organizza le squadre […] in pochissimo tempo, e (riesce, n.d.r.) a farle arrivare sui campi”.
Le vittime del caporalato
Benché il caporalato sia un fenomeno estremamente diffuso e trasversale nelle diverse zone d’Italia, è importante notare come a caderne vittime siano soprattutto i braccianti di origine straniera. Secondo un’indagine di The European House – Ambrosetti, dei circa 430.000 lavoratori agricoli a rischio di caporalato in Italia, l’80% sono stranieri.
Un altro dei fattori fondamentali per lo sviluppo del caporalato è, infatti, la presenza sul territorio di individui suscettibili allo sfruttamento. Questi sono spesso proprio gli stranieri che, a prescindere dal loro status legale nel Paese, si ritrovano spesso a essere in una posizione di svantaggio rispetto ai loro corrispettivi italiani. Tale circostanza è dovuta a vari fattori legali, demografici e culturali, davanti a cui le istituzioni hanno sempre preferito chiudere un occhio.
In particolare, tratteremo la condizione dei braccianti stranieri nelle nostre campagne in maniera più approfondita nel prossimo articolo dedicato all’argomento.