Al momento in cui questo articolo viene redatto, il Venezuela affronta il quinto anno consecutivo di recessione, dall’inizio della quale il suo Pil è calato del 45% e non accenna a risalire, e la sua valuta, il Bolivar, è diventata carta straccia grazie ad una inflazione che sta per raggiungere la mostruosa soglia del 1.000.000%. Il tutto mentre la banca centrale nazionale da quattro anni si rifiuta di pubblicare dati riguardanti la propria economia.
Chiaramente qualcosa non ha funzionato, ma cosa?
IL SECONDO DOPOGUERRA E L’INIZIO DELL’ESTRAZIONE DEL PETROLIO
Andiamo con ordine. All’inizio degli anni ’40 dell’Ottocento, un Venezuela in balia di caudillos e signori locali scopre il petrolio. A circa 100 anni dall’indipendenza dalla Spagna, l’oro nero cambia totalmente la situazione economica del Paese: infatti già nel 1928 il Venezuela diventa il secondo produttore al mondo del bene, all’epoca, più ricercato e costoso ed è, nel 1950, il quarto paese per PIL pro capite al mondo. Come però spesso capita in paesi di scarsa tradizione democratica, le (già allora) considerevoli entrate del petrolio non vengono usate per diminuire le disuguaglianze sociali del paese, ma finiscono per arricchire i funzionari del governo. Dopo circa un trentennio di colpi di stato, lotte di potere e instabilità, nel 1958 l’elezione democratica di Romulo Betancourt dà inizio al periodo pacifico della storia politica venezuelana. Da lì in poi, seguiranno sessant’anni di libere elezioni e di governi civili e democratici, per quanto spesso corrotti e in qualche occasione addirittura violenti.
L’EPOCA D’ORO E L’INIZIO DELLA CRISI
È anche grazie a loro che tra il 1968 e il 1978 il Venezuela decolla, sollevato da un vero e proprio boom economico, che lo porta ad essere il paese più ricco di tutto il Sudamerica. Con un tasso di crescita invidiato anche da molti stati europei, e un PIL più alto di paesi come Israele, Portogallo e Grecia, Caracas sembra destinata a coprire in pochi balzi la distanza che la separa dalle economie più avanzate. Il prezzo del petrolio è stabile quando non cresce, il Venezuela ne è il maggior depositario al mondo (la zona di Maracaibo da sola produce oltre 3,5 milioni di barili al giorno, creando un indotto di 10 milioni di dollari giornalieri) e anche la situazione politica è serena, con un bipartitismo funzionante. Forte dei ricavi dovuti all’aumento dei prezzi seguito alla crisi petrolifera del 1973, nel 1975 il governo di Carlos Andrés Perez nazionalizza l’industria petrolifera, creando la PDVSA e trasformando, sostanzialmente, lo stato in un “petrostato”. I due partiti di governo (AD e COPEI) non brillano però per onestà, e di conseguenza la grossa fetta della ricchezza non arriva mai agli strati più poveri della popolazione.
Il Venezuela è quindi uno stato spaccato a metà, un gioiello dalle fondamenta fragili. E infatti, puntualmente, il tracollo arriva. Agli inizi degli anni ’80, temendo un esaurimento del preziosissimo oro nero, lo stato maggiore di Caracas decide di diminuire la produzione di barili. Nello stesso periodo, a causa della troppa offerta, il prezzo del petrolio crolla: il mix è letale e l’economia venezuelana, che per il 96% dipende dalle entrate del greggio, barcolla. In sei anni, dal 1981 al 1987, il prezzo del petrolio precipita da 106 a 32 dollari a barile e il Pil del paese Sudamericano lo segue a ruota, calando del 46%. Il decennio è crudele, e con meno soldi nell’economia pian piano il Venezuela si rende conto di come il suo welfare state sia insostenibile: gli anni ’70, fatti di sussidi a pioggia e spreco, non sono ripetibili. Il governo, abituato ad usare la PDVSA come un bancomat, non ha mai differenziato gli investimenti, e gli eccessivi interventi statali nell’economia paralizzano il paese. La crisi economica diminuisce di parecchi gradi la ricchezza della classe media, e la forbice tra ricchi e poveri si fa sempre più larga e netta.
Ma i Venezuelani non ci stanno a perdere quel benessere e quello status che per vent’anni li avevano resi quasi un modello: protestano, chiedono cambi e riforme. Ma l’unica riforma che potrebbe rimettere in sesto un sistema ormai a un passo dal baratro è una profonda e dolorosa revisione fiscale. Il FMI lo sa, e ironicamente nel 1989 la chiede in cambio di aiuti al secondo governo di Oscar Andrés Perez, proprio colui che aveva certificato la dipendenza statale dal petrolio, nazionalizzandolo. Andrés Perez accetta perché non può fare altro, ma le sue mosse sono palliative su un’economia gravata da una politica monetaria sbagliata e da decenni di clientelismo.
Ma, come detto, i Venezuelani non ci stanno, e ci stanno ancor meno se un programma di tagli “lacrime e sangue” viene imposto loro dal FMI. Così, il 27 e il 28 febbraio 1989 Caracas è travolta da proteste contro il pacchetto di aiuti, che subito si trasformano in una vera e propria rivolta. Il governo però non è incline a trattare, fa uscire l’esercito dalle caserme e gli scontri lasciano sul selciato almeno 380 morti.
È l’inizio della fine. Il governo sospende le libertà costituzionali ma è ormai delegittimato, e in tre anni subisce due tentativi di golpe e un impeachment. Andrés Perez viene accusato di corruzione, e il puntofijismo (il patto costituzionale tra AD e COPEI che, stabilendo un bipartitismo, si impegnavano a difendere la costituzione e la stabilità politica ed economica del paese) entra definitivamente in crisi. I brevi e instabili governi successivi adottano mezze misure che non affrontano i veri problemi strutturali del Venezuela, ma si limitano a diluire le riforme chieste dal FMI, mentre povertà e malcontento aumentano. È quindi in questo panorama politico che entra in gioco Hugo Rafael Chavez.
L’EPOPEA CHAVISTA
In realtà Chavez non è una new entry: era tenente colonnello dell’esercito e ha partecipato al tentato colpo di stato del 1992, per il quale è anche stato incarcerato. Nel 1994 però viene però liberato e riabilitato politicamente, e ha così campo libero per la sua campagna elettorale. Il suo programma punta a trasformare il Venezuela in uno stato completamente socialista, viste le enormi sacche di povertà che si stanno creando nelle zone metropolitane, e visto anche il mezzo secolo di cristiano-socialdemocrazia fallimentare. Chavez fomenta quindi gli strati più bassi della popolazione, usandole come truppe d’assalto per le elezioni del 1998, che stravince. In un paese con enormi differenze economiche e sociali, la sua idea di redistribuzione delle ricchezze può essere potenzialmente rivoluzionaria, e infatti il suo progetto verrà chiamato dai suoi sostenitori Revoluciòn Bolivariana. E, oggettivamente, i numeri gli danno ragione: nei quindici anni di governo, dal 1998 al 2013, le politiche di Chavez fanno sì che il tasso di disoccupazione si dimezzi, che il reddito pro capite raddoppi, che povertà e mortalità infantile diminuiscano sensibilmente e che l’istruzione faccia passi da gigante: per i più poveri, Chavez è letteralmente una manna dal cielo.
A che prezzo però? Prima di tutto Chavez, che si è sempre proposto come un seguace della Terza Via, è in realtà un socialista fatto e finito, che al governo si circonda di marxisti e collettivisti incalliti. La retorica rose e fiori della campagna elettorale lascia il posto ad un programma di governo molto più estremo e pendente verso sinistra, che causa inevitabilmente la fuga dei (già pochi) capitali esteri: l’economia venezuelana, a quel punto, è legata a doppio filo alle sorti del petrolio. In più, dopo aver criticato ferocemente la corruzione dell’ordine puntofijista, il neo-presidente continua quel sistema di clientele e corruzione ereditato dai governi precedenti, peggiorandolo. L’esempio più eclatante è la PDVSA, che dal 1993 al 2013 è passata da una produzione di 3,1 milioni annui a circa 2, ma ha triplicato i suoi 40.000 dipendenti.
Ma Chavez, che ha un disperato bisogno di soldi per le sue manovre sociali, si inserisce anche nella discutibile tradizione di utilizzare l’azienda petrolifera come bancomat statale: sfruttando al massimo il lusso dei prezzi tornati alti del petrolio, decide di spremere il più possibile l’azienda per consolidare il suo potere politico. Non solo, ma nel 2003 avvia un repulisti interno alla PDVSA, licenziando dopo un lungo sciopero 19.000 dipendenti anti-governativi, determinando un’enorme perdita di capitale umano. Commette poi un altro errore che costerà carissimo: anche quando i soldi ci sono non diversifica gli investimenti, mancando così l’ultima possibilità per il Venezuela di alleggerire la sua dipendenza dal greggio. Le vie d’uscita c’erano, soprattutto quando nel decennio 1998-2008 il prezzo del petrolio è schizzato vicino ai massimi del periodo d’oro degli anni ’70 e le entrate avrebbero permesso di ammortizzare il -75% accusato in pochissimi anni dal Bolivar (la valuta venezuelana) in seguito alla fuga di capitali. E così, mentre la Norvegia, che di petrolio ne ha la metà, in vent’anni è stata in grado di affidare al suo fondo sovrano circa 1.000 miliardi di dollari che le hanno permesso di superare quasi indenne il calo delle quotazioni del greggio, il Venezuela non ha sfruttato dieci anni di prezzi sopra i 50$ al barile, sperperando così una fortuna.
IL DECLINO
È così, nuda e indifesa, che l’economia venezuelana affronta il crollo dei prezzi del petrolio del 2008. Un sistema totalmente dipendente dalle vendite di greggio, senza un’altra plausibile entrata di capitale e appesantito da anni di politiche monetarie scriteriate e un sistema di welfare un’altra volta insostenibile. La discesa non è immediata, ma è irrefrenabile: già verso la fine dell’era di Chavez, che morirà nel 2013, si avvertono pericolosi segnali di crisi. Tra l’inflazione che inizia a salire e il bolivar che viene svalutato costantemente (passa in un solo giorno da un cambio di 1,6$ a uno di 4,3$), inizia la triste era del delfino Maduro. Per un po’ le riserve auree e i prezzi amministrati, una costante del governo Chavez, tengono a galla il paese, ma ad un certo punto il tonfo è inevitabile e doloroso.
È solo il primo tempo di una storia drammatica: il resto della paradossale storia recente (l’inflazione a cifre record, il paese nel caos, gli scaffali vuoti nei supermercati, le vendite di oro e la produzione di petrolio che, pur quanto mai necessaria, cala) è il destino scritto di un paese destinato, secondo molti analisti, al fallimento entro il 2020. Gli ultimi tentativi quasi patetici del governo di fermare la svalutazione si sono tradotti nella creazione di una criptovaluta, il Petro, ancorata al petrolio e nella cancellazione coatta di cinque zeri al valore della valuta. Sono i tristi titoli di coda, capitanati da un presidente (Maduro) incapace e travolto dagli eventi, di un’economia che rifiuta gli aiuti internazionali per ideologia e che, solo quarant’anni fa, era una delle più ricche e promettenti al mondo.