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“Quota 101 è populismo di sinistra. L’Italia riparta dall’istruzione”

Tempo di lettura stimato: 11 min.

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In questi giorni il governo sta discutendo di una possibile nuova riforma delle pensioni. Il Ministero del lavoro e delle politiche sociali sta vagliando diverse ipotesi per il superamento di Quota 100, la riforma introdotta dal governo Conte I ed uno dei cavalli di battaglia di Matteo Salvini. Noi di Orizzonti Politici abbiamo chiesto un parere alla prof.ssa Elsa Fornero, ex ministro del lavoro nel governo Monti e promotrice della tanta agognata riforma delle pensioni che porta il suo nome.

Se non ne sai molto sul tema pensioni e vuoi cercare di capirne qualcosa, clicca qui.

Quota 100 è stata confermata dal secondo esecutivo Conte, qual è il suo giudizio?

Ritengo sia mancata una chiara presa di posizione del governo Conte II. Bisognava avere il coraggio di affermare che Quota 100 è stata un errore, una misura volta a creare consenso politico nel breve termine a favore di un partito, indirizzando un’ ingente quantità di risorse pubbliche su un obiettivo non prioritario. Eliminare la misura non sarebbe stato politicamente possibile, né opportuno per non tradire le aspettative di molte persone ma sarebbe stato necessario avviarne un lieve décalage per evitare il brusco scalone che si creerà al termine della sperimentazione. È iniquo che alcune persone abbiano la possibilità di andare in pensione a 62 anni con 38 anni di contributi e invece per altri (quelli che andranno in pensione a partire dal 1 gennaio 2022, ndr) si debba ritornare ai parametri di pensionamento della riforma del 2011.

Anche perché erano già state introdotte alcune misure volte a dare più elasticità e flessibilità nel pensionamento rispetto a quelle, più rigide, in vigore dal 2011 . Da una parte l’APE social, che consente alle persone più in difficoltà di andare in pensione anticipatamente, con la collettività che si prende carico dei costi di questa soluzione. Dall’altra l’APE volontaria, che garantisce flessibilità nel pensionamento a carico del soggetto che sceglie di adottarla. E poi ci sono state molte misure ad hoc per le diverse categorie di lavoratori, come i lavoratori precoci o quelli che fanno lavori gravosi, una categoria che si aggiunge a quella degli usuranti.

Adesso si pone il problema del superamento di quota 100, quota 101 la convince?

Se si proseguisse sulla strada intrapresa dai governi precedenti di cui parlavo prima, sarebbe più facile uscire da Quota 100. Devo ammettere che, invece, vedo molto populismo nelle proposte emerse per sostituirla, come Quota 101 (che non si discosta molto da Quota 100), o il ripristino della pensione di anzianità, che per molto tempo, prima della nostra riforma, è stata indicata come un grave spreco sociale.

Questo populismo di sinistra non presagisce niente di buono. È un peccato, perché soprattutto in un periodo di gravi incertezze, come l’attuale, è evidente che il paese avrebbe avuto bisogno di maggiori risorse per affrontare l’emergenza coronavirus. Aver aumentato il debito per sostenere la spesa corrente, com’è stato fatto per Quota 100 e anche per il reddito di cittadinanza, rende più difficile oggi indebitarsi per sostenere un’economia in gravi difficoltà. Possiamo sì contare su una maggiore flessibilità da parte dell’Europa ma non possiamo nasconderci che l’ulteriore aumento del debito pubblico può creare le premesse per una nuova crisi finanziaria domani. In altre parole, ci siamo briciati dei margini di manovra che in questo periodo sarebbero stati di grande aiuto. Ed è un paradosso che a invocare oggi interventi drastici a favore dell’economia (fino a 50 miliardi) siano gli stessi che ieri, in modo miope, non hanno esitato ad aumentare il debito per le spese correnti.

Che consigli si sente di dare all’attuale ministro del lavoro Nunzia Catalfo?

Non voglio dare consigli, mi limito a dire che chi occupa una posizione di governo dovrebbe adottare una prospettiva di lungo termine, che tenga conto delle generazioni giovani e future, anziché limitarsi a una visione che guarda esclusivamente alle prossime elezioni. È facile fare promesse politiche scritte sulla sabbia, ma è dannoso per il paese. Suggerirei perciò di guardare lontano e di spostare l’ottica dalle pensioni al lavoro Bisogna capire che il lavoro deve essere la priorità. Ma non secondo la logica della sostituzione (fuori uno per farne entrare un altro) secondo la logica dell’inclusione   che riguarda tutte le persone in grado di lavorare. Con il progredire dell’aspettativa di vita, oggi a 60 anni si è ancora in età lavorativa, e se assistiti da buona salute lo si è anche a 65, lavori usuranti a parte.

Guardando la televisione e leggendo i giornali, in questo Paese si percepisce una concezione del lavoro come un sacrificio ineluttabile, mentre altrove spesso il lavoro è concepito come un’opportunità di realizzazione personale. Secondo lei a cosa è dovuto tutto questo?

Questa visione del lavoro è dovuta al contesto socioeconomico del nostro paese. L’Italia, rispetto ad altre nazioni, è uscita più tardi da una concezione di lavoro come duro e faticoso perché siamo stati più a lungo un’economia prevalentemente agricola. Ovviamente il lavoro della terra è un lavoro duro, e l’industria (quella tradizionale della catena di montaggio, con orari di lavoro scanditi e poco flessibili) non era meno gravosa. Abbiamo, invece, sviluppato più tardi il settore terziario, che spesso è meno stancante e più gratificante; quindi un’idea di lavoro come auto-realizzazione e partecipazione che contribuisce al benessere anche della società. Inoltre, percepisco questa visione del mondo del lavoro come ancora molto viva nella memoria delle persone, nei racconti familiari e nel sentire comune.

Bisogna dire che anche i media hanno fatto la loro parte, promuovendo l’idea che in generale le persone non aspirino ad altro che andare in pensione. Una diversa considerazione del lavoro dovrebbe essere anche oggetto di una comunicazione più pacata e meno negativa da parte di tutti i media.

E lei che visione ha del lavoro?

Ovviamente il lavoro che svolgo, quello del professore, è un mestiere privilegiato. Nonostante ciò, ho anch’io memoria del lavoro faticoso. Sono nata in campagna e anche dai ricordi dei miei genitori comprendo i motivi di questa concezione del lavoro come fatica fisica e, per conseguenza, la volontà di alcune persone di andare in pensione il prima possibile. Però è importante che le persone comprendano anche le conseguenze sociali di scelte politiche miopi, come le baby pensioni e in generale come i pensionamenti a un’età ancor giovane con un beneficio che i contributi versati finanziano soltanto in parte, lasciando il resto a carico della collettività.

Ha affermato che il lavoro del professore è un privilegio, alcuni dibattono che sia uno dei lavori da inserire nella lista dei gravosi, lei cosa ne pensa?

Innanzitutto, bisogna distinguere tra diversi tipi di insegnante. Fare il maestro d’asilo è chiaramente faticoso, perché i bambini hanno bisogno di una cura più intensa e devono essere accuditi anche fisicamente. Per quanto riguarda i professori, specialmente quelli della scuola primaria e secondaria, anche quello può essere un lavoro gravoso, specialmente in alcune situazioni.

A quali si riferisce?

Mi riferisco a situazioni dove anche gestire adolescenti può diventare impegnativo, specialmente quando la disciplina non viene considerata un valore. Oggi l’osservanza delle regole di disciplina nelle classi è messa fortemente in discussione, e spesso non si ha l’appoggio dei genitori, che non di rado danno ragione a un figlio turbolento piuttosto che a un insegnante che cerca di rimediare a carenze dell’alunno. Poi, ovviamente, generalizzare è sempre rischio e i fattori che contano sono molteplici. Per esempio, essere insegnante nelle aree più disagiate e povere del paese è indubbiamente più impegnativo. Può essere molto difficile insegnare a una classe di circa 30 ragazzi, soprattutto se si concepisce l’insegnamento anche come inclusione/integrazione  (anche perché integrare è più arduo che punire, fa notare la prof.ssa, ndr). Ritengo perciò che anche la professione dell’insegnante possa essere gravosa, anche se non è detto che non si possano cambiare l’organizzazione del lavoro e le modalità del suo svolgimentocon l’età. Per esempio, gli insegnati meno giovani potrebbero essere maggiormente impegnati nella preparazione delle lezioni a distanza senza necessariamente avere lo stesso carico di lezioni frontali di quelli più giovani. L’organizzazione stessa dell’insegnamento va rispensata, anche perché soggetta comunque a molti cambiamenti indotti dall’esterno, come quelli tecnologici. Però ci vogliono risorse. Se non si hanno risorse a disposizione per le scuole e l’educazione, l’insegnamento diventa più faticoso ed è ovvio che i professori possano desiderare di lasciare il lavoro quanto prima possibile. Ho sentito molte persone dire di non farcela più. Torniamo quindi al trade-off tra spendere per l’istruzione e spendere per le pensioni. Ma questo è un discorso ampio, che richiede un impegno maggiore nei confronti dell’educazione, che è un obiettivo prioritario per il nostro Paese.

Un sistema scolastico efficiente influisce sulle politiche pensionistiche?

Credo che un sistema scolastico efficiente ed efficace rispetto agli obiettivi che si propone sia alla base del prosperare di un paese, sia economico sia civile e persino morale. In questo senso, può essere considerato come un requisito non sufficiente, ma assolutamente necessario. Purtroppo, oggi la scuola sta perdendo rilevanza da un punto di vista sociale, si pensi alla scarsa considerazione degli insegnanti nella società. La scuola è importantissima anche per mettere nella giusta luce altre importanti fonti di apprendimento, come i media e i social, che senza un’educazione a monte in grado di inquadrarne i contenuti può produrre danni gravi. Il problema è che in Italia non abbiamo fatto nulla per contrastare questa perdita di rilievo sociale dell’istruzione e della stessa scuola pubblica come istituzione fondamentale del Paese. I sintomi di questa perdita si vedono anche fisicamente, nello stato di abbandono delle scuole, dove spesso mancano le risorse per mettere a posto gli edifici o per sostenere i sussidi informatici. Il punto è che questo senso di decadenza negli edifici rivela un atteggiamento di negligenza nei confronti dell’ambito educativo. D’altronde, spendiamo relativamente meno degli altri paesi in istruzione, e la maggior parte delle nostre spese serve a coprire gli stipendi del personale docente, lasciando poco per il resto. E credo che questa scarsa considerazione sia uno degli elementi del nostro declino.

La sua riforma è stata per anni uno dei temi principali del dibattito politico in Italia. La natura del vostro governo tecnico, magari poco abituato a logiche di marketing politico, ha inciso su una erronea comunicazione della sua riforma?

Sicuramente ha influito, però credo che non fosse dovuto alla mancanza di abitudine a comunicare. Era un governo di professori, che sono abituati a spiegare, anzi, a narrare come oggi si dice, e comunque a dialogare. Il vero problema fu che non avevamo proprio gli strumenti per comunicare. Per far comprendere certe riforme, spesso occorre un attore intermedio che fa da tramite tra governo e cittadini, e normalmente questo compito è svolto da un partito. Nel nostro caso i partiti che appoggiavano il governo (approvando in parlamento le misure da noi proposte), hanno fatto terra bruciata intorno a noi. È difficile  mantenere credibilità quando i partiti che votano riforme in parlamento se ne discostano subito dopo nella comunicazione con i cittadini, cercando di addossare la responsabilità di quelle scelte esclusivamente ai tecnici del governo. In particolare, è mancato nei partiti che hanno approvato le nostre riforme il coraggio di dire la verità sula situazione dell’Italia di allora, nell’autunno 2011: un paese sull’orlo del baratro da collasso finanziario. Quando una crisi finanziaria colpisce un paese, e in questo caso la Grecia insegna, la vita di milioni di cittadini viene travolta.

Da chi si aspettava un atteggiamento diverso?

Penso in particolare al Partito Democratico, a cui queste riforme dovrebbero stare più a cuore. Non dico che avrebbero dovuto difendere a spada tratta le mie riforme, quella pensionistica e quella del lavoro, ma almeno sostenere la via che si era intrapresa, indicando che quella era la direzione giusta. Ma mi riferisco anche agli altri partiti che hanno strumentalizzato la riforma pensionistica pensando cinicamente di sfruttare elettoralmente il malcontento popolare  senza spiegare che quella riforma, certamente perfettibile, andava nella giusta direzione, anche portando a compimento quelle precedenti, in generale per produrre effetti atti a contrastare l’invecchiamento della popolazione.

Alcuni politici, in particolare Matteo Salvini, hanno creato una grossa parte del loro consenso criticando aspramente la mia riforma. Intuendo che su questi temi si potevano captare grosse fette di elettorato, ha messo in moto la sua macchina propagandistica e la sua indubbia bravura comunicativa (nel senso deteriore del termine).

È poi curioso vedere gli stessi personaggi che scaldavano gli animi con dichiarazione estreme e violente, invocare adesso collaborazione, coesione e calma tra le forze politiche. Quando si hanno ruoli di potere, che implicano il dover prendere delle decisioni, si ha una responsabilità molto pesante.

Forse gli italiani non hanno compreso che le vostre riforme erano una medicina amara a una malattia ancora più dolorosa. In questo senso, il pacchetto di riforme introdotte nel 2011 fu chiamato Salva Italia, non sarebbe stato più efficace chiamarlo decreto Salva italiani?

(Sorride, ndr) Beh, devo dire che questo è un buon suggerimento, ma col senno di poi è sempre più facile analizzare e trovare soluzioni migliori. Sicuramente il nostro governo dava l’impressione di un tecnicismo eccessivo, una squadra arrivata per “mettere in salvo” il Paese. Ciò che è mancato a livello comunicativo è stato il tentativo di far comprendere alle persone che i sacrifici che le nostre riforme richiedevano, la cosiddetta austerity, erano finalizzati a evitarne di più grandi, generati dalla crisi finanziaria. Invece, la narrazione che è prevalsa è stata quella di riforme che facevamo male agli italiani per salvare le banche tedesche. Questo ha contribuito a non far comprendere quelle riforme al paese. Ma, ripeto: noi non avevamo né gli strumenti (al ministero avevo solamente due persone a gestire la comunicazione, il che rendeva molto limitata l’attività comunicativa) né la cinghia di trasmissione solitamente rappresentata dai partiti che sostengono il governo. Personalmente penso di essere una buona comunicatrice, capace di dialogare cercando non solo di spiegare ma anche di ascoltare, ma ovviamente questo rimane una goccia nel mare, soprattutto se quest’ultimo è in tempesta. Per mandare avanti questa mia missione ho anche scritto un libro, il che mi ha dato l’occasione di parlare con le persone; un’opportunità che non ho avuto da ministro.

Per questo, ritengo che i governi debbano essere politici, non tecnici: le responsabilità di governo sono enormi e solo un contatto diretto con i cittadini può sostenerle. Ma i cittadini devono essere correttamente informati e consapevoli della complessità delle scelte. E anche questo richiede educazione.

Antonio Maria De Rosa
A Napoli mi dicono "sei romagnolo", in Romagna mi dicono "sei napoletano"; insomma, penso di essere cosi noioso che nessuno mi vuole. Autoritario nei modi, libertario di idee. Ho tre passioni: calcio, cucina e Orizzonti Politici. Attualmente studio in Bocconi. Sogno nel cassetto? Diventare astronauta!

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