Abituato da tempo ad un conflitto a bassa intensità con Hamas nella Striscia di Gaza, e con il più potente Hezbollah in Libano, il 7 ottobre è stato per la psiche del Paese un giorno traumatico. All’improvviso è crollato il presupposto su cui si era retto fino a quel momento il relativo senso di sicurezza della società israeliana: la deterrenza. In prima analisi si può dire che Benjamin Netanyahu, primo ministro israeliano, vuole più guerra per ristabilire i rapporti di forza antecedenti al 7 ottobre.
Da quasi undici mesi assistiamo ad un esempio perfetto di come la deterrenza funzioni finché non smette di funzionare, e di come, per Israele, riconquistare il senso di sicurezza sia molto più difficile che mantenerlo. Non per caso Netanyahu cerca disperatamente un casus belli che giustifichi l’ampliamento della guerra e che, potenzialmente, ne cambi le sorti.
Ciò detto, la riconquista della sicurezza per il popolo ebraico è lontana dall’essere l’unica ragione per cui Netanyahu vuole una guerra totale contro l’Asse della resistenza dell’Iran, di cui Hamas, Hezbollah e gli Houthi fanno parte. In che posizione si trova Netanyahu ad oggi? E perché sta cercando un casus belli?
Hamas mette Israele sotto scacco
Se siamo arrivati fino a qui senza un cessate il fuoco è perché, con quasi assoluta certezza, Netanyahu non lo ha mai preso in considerazione. Fin dall’inizio infatti i suoi partner di governo estremisti gli hanno fatto capire, senza giri di parole, che scendere a patti con Hamas gli sarebbe costato il posto. Ma anche in assenza del ricatto politico, sarebbe comunque stato difficile immaginare un Netanyahu diverso. Secondo un recente sondaggio, infatti, appena il 56% degli israeliani vuole la fine della guerra in cambio della restituzione di tutti gli ostaggi. La tregua con Hamas, quindi, dipende dal ritiro delle truppe dalla Striscia di Gaza, una clausola a cui Netanyahu si oppone categoricamente.
Qualora gli ostaggi venissero liberati grazie ad un accordo con Hamas, il ritiro delle truppe ammonterebbe ad una sconfitta pesantissima dal punto di vista israeliano. In prima battuta perché ritirandosi dopo aver causato migliaia di morti civili l’esercito, o Israel Defence Forces (IDF), lascerebbe Hamas, vittorioso, in controllo della Striscia come prima del 7 ottobre. Ma anche, e soprattutto, perché lo Stato Ebraico dovrebbe fare i conti con il danno reputazionale causato dalla devastazione di Gaza, e con la rinnovata centralità della ormai centenaria questione palestinese. Consapevole di ciò, Netanyahu vuole che sia l’esercito a prendere controllo della Striscia. Ciò implica, però, l’implementazione di una versione adattata dell’occupazione della Cisgiordania, considerata dalla Corte Internazionale di Giustizia (CIG) “illegale” e da smantellare “il prima possibile”. In questo senso il 7 ottobre, Hamas ha dato scacco al “re israeliano”.
Israele sta perdendo la guerra anche sul fronte prettamente militare. Le IDF infatti non sono state finora capaci di ristabilire il potere deterrente dello Stato Ebraico. Per deterrenza si intende l’utilizzo di minacce (più o meno esplicite), per non dire l’uso limitato della forza, al fine di dissuadere l’avversario dal credere di poter cambiare un dato status quo con la forza. Nello specifico quest’ultimo è rappresentato dall’occupazione dei territori palestinesi a cui l’Asse della resistenza si oppone. Le Brigate al-Qassam, braccio armato del movimento politico Hamas, continuano a combattere malgrado la brutalità delle IDF. E insieme a Hezbollah dal Libano e gli Houthi dallo Yemen, il territorio israeliano è tuttora vulnerabile ad attacchi missilistici.
Infine Israele sta perdendo anche sul piano diplomatico. Se avvalorata, infatti, l’accusa di genocidio, portata davanti alla CIG dal Sud Africa, avrebbe ripercussioni profonde ed irreversibili per Israele e chi lo ha supportato militarmente. Il 3 settembre, il governo britannico ha annunciato la sospensione della vendita di 30 su 350 articoli bellici, il sospetto è che siano utilizzati per commettere crimini contro l’umanità a Gaza.
Quale strategia, allora, per togliere il “re israeliano” dallo scacco senza rinunciare all’occupazione dei territori palestinesi, e ribaltando le sorti di una guerra da cui Netanyahu, oltre che una fetta considerevole d’Israele, non tollera di uscire sconfitto?
Netanyahu alla ricerca di un casus belli
É dal 7 ottobre che i giornali mettono in guardia i loro lettori dal rischio di un’escalation imminente e catastrofica che non si è ancora materializzata. In pochi dicono che è principalmente grazie alla prudenza dell’Asse se finora non si sia arrivati a tanto, malgrado lo scenario si stia facendo sempre più concreto. Durante l’estate, infatti, il fronte libanese e iraniano hanno iniziato a scaldarsi pericolosamente, in entrambi i casi per volere israeliano.
Il 27 luglio un missile colpisce un campetto da calcio uccidendo dodici bambini di un villaggio arabo-siriano nelle Alture del Golan, territorio d’importanza strategica che Israele occupa dal 1967 e ha annesso formalmente nel 1981 (contro il volere della popolazione locale). Il responsabile più plausibile è Hezbollah che più volte ha preso di mira obiettivi militari nell’area ma si tratterebbe, altrettanto probabilmente, di un errore. A differenza delle IDF, che dal 7 ottobre hanno ucciso circa 100 civili e 500 operativi libanesi, l’Associated Press stima che gli attacchi di Hezbollah, principalmente diretti su asset militari, abbiano causato la morte di 13 civili e 22 militari israeliani.
La condotta di Hezbollah lascia pensare che il gruppo tolleri l’idea una terza guerra contro Israele ma non parrebbe non desiderarla affatto. Eppure Netanyahu, recandosi sul posto in abito nero, simbolo di lutto, poche ore dopo l’accaduto, è apparso volerne fare un casus belli. Infatti, ignorando le proteste dei residenti che lo accusano di essere un “criminale di guerra”, il primo ministro promette, davanti alle telecamere, che “i figli [di Israele]” verranno vendicati. Passati quattro giorni la vendetta annunciata si materializza, un generale di Hezbollah viene ucciso da un missile nella capitale libanese Beirut. Inoltre, poche ore dopo l’attacco a Beirut segue l’assassinio a Teheran di Ismail Haniyeh, capo politico moderato di Hamas, che si era recato in visita per la cerimonia di inaugurazione del nuovo presidente iraniano.
La gravità degli attacchi israeliani è tale che la guerra sarebbe potuta già divenire totale, se l’Asse l’avesse voluto, un’evenienza a cui tutti gli attori sono pronti da mesi. Hezbollah, invece, per ridurre il rischio d’escalation, aspetta 25 giorni prima di lanciare un intenso attacco missilistico. L’intelligence israeliana ne è al corrente, infatti le IDF corrispondono il fuoco nemico poco prima che l’attacco abbia inizio. L’Iran, anch’esso coinvolto nella “vendetta” israeliana, addirittura si astiene, consapevole che per lo Stato Ebraico l’asticella oltre la quale un atto ostile si trasforma in casus belli è molto bassa.
Nell’arco di ventiquattro ore, quel 31 luglio, Netanyahu può dire di aver istigato Hezbollah, umiliato l’Iran e compromesso definitivamente i negoziati di pace con Hamas. Per il casus belli dovrà attendere ancora.
“La Seconda guerra d’indipendenza israeliana”
Secondo la ricostruzione fatta in “The hundred years’ war on Palestine” da Rashid Khalidi, considerato da molti il più grande storico e accademico palestinese, si inizia a parlare di Nakba, “catastrofe”, nel 1948, quando, per evitare la violenza delle forze armate ebraiche, i palestinesi vengono fatti scappare dalle proprie case. Il trauma dell’olocausto ha reso la creazione di uno Stato a maggioranza ebraico un imperativo categorico per la leadership sionista, il Piano Dalet ne dà prova. Attuato nella primavera di quel fatidico anno, prevede l’espulsione degli arabi palestinesi dai centri urbani. Jaffa ad esempio, oggi inglobata in Tel Aviv, viene presa d’assedio e bombardata incessantemente dall’esercito fino a costringere alla fuga i suoi 60000 abitanti.
Quella che fino ad un istante prima era una guerra civile tra musulmani ed ebrei, durante la quale 300000 palestinesi sono stati messi in fuga (prima fase della Nakba), il 15 maggio 1948 si trasforma nella guerra israelo-araba. I padri fondatori d’Israele sottoscrivono la Dichiarazione d’Indipendenza e gli eserciti di Egitto, Siria, (Trans)Giordania, Iraq e, in minor misura, Libano, Yemen e Arabia Saudita, dichiarano guerra allo Stato Ebraico appena costituito. In questa seconda fase della Nakba, altri 400000 palestinesi scappano dal massacro e non faranno mai ritorno. Israele esce vittorioso, ha conquistato il 78% del territorio della Palestina Mandataria ed espulso oltre la metà dei palestinesi presenti.
La storia non si ripete mai allo stesso modo ma le somiglianze tra quello che osserviamo oggi e gli eventi del 1948 sono molteplici. Come quando, dopo l’olocausto, gli ebrei si dissero “mai più”, le stesse parole sono ritornate in auge in Israele dopo il 7 ottobre. Il Piano Dalet decimò la popolazione palestinese mettendola in fuga, la guerra ad Hamas con missili, droni, carestia ed epidemia, al posto di cecchini e mortai, sta avendo lo stesso effetto. Il casus belli, che Netanyahu sta cercando di creare ad arte, in passato è stato segnato dalla Dichiarazione d’Indipendenza. Infine, quella che per adesso rimane una guerra ad Hamas e alla Palestina più in generale, presto potrebbe aumentare d’intensità fino a diventare la terza guerra del Libano o la prima guerra israelo-iraniana.
Netanyahu vuole più guerra perché ha solo di che guadagnarne: rimanere al controllo del Paese, ristabilire la deterrenza tramite una vittoria su Hezbollah, occupare indefinitamente la Striscia di Gaza, riguadagnare in certa misura il supporto della comunità internazionale a detrimento dell’immagine dell’Asse della resistenza e dell’Iran, antagonista occidentale per antonomasia. E, soprattutto, dare un ulteriore (forse definitivo) colpo ai palestinesi, non più solo a Gaza, ma anche in Cisgiordania, che sta emergendo come un teatro di guerra chiave.
Lo spettro di una nuova Nakba
Quest’anno gli atti violenti dei coloni hanno toccato nuove vette, galvanizzati dalla guerra a Gaza e dal ministro per la sicurezza nazionale, Itamar Ben-Gvir, che li rappresenta nel governo. Recentemente, in Giordania, il solo stato a confinare con la Cisgiordania, il re Abdullah II ha ribadito di essere preoccupato dalla potenziale fuga dei palestinesi nel suo Paese. A febbraio l’Egitto ha iniziato a costruire un ulteriore muro di confine alto sette metri a sud della Striscia di Gaza. Da quando Israele ha preso totale possesso del precedente confine la paura è quella di un esodo di rifugiati palestinesi.
Quando il 28 ottobre scorso Netanyahu si è rivolto al Paese dichiarando l’inizio della “seconda guerra d’indipendenza”, i Paesi confinanti devono aver colto l’antifona. Insieme al Libano, Egitto e Giordania vennero fortemente destabilizzati dall’enorme flusso di rifugiati palestinesi del 1948. Per la Palestina, diretta interessata, fino al Medio Oriente intero, lo spettro di “seconda guerra d’indipendenza israeliana” rappresenta una minaccia esistenziale. Per Israele e per Netanyahu, invece, la sola mossa possibile per levare il re dallo scacco.





