Professoressa, dopo il vostro primo incontro il 15 aprile, che idea si è fatta del ruolo concreto che avrà la vostra task force?
L’obiettivo è quello di aiutare il nostro Paese tramite politiche che rilancino la figura femminile. Ancora oggi sono troppo poche le donne con posizioni di potere e che entrano nel mercato del lavoro e questo è un male non solo per le donne, ma per la collettività nazionale che si priva delle loro competenze. Nello specifico, ci siamo dati una road map che prevede una prima fase di analisi e raccolta dati e poi la discussione e la conseguente stesura di proposte concrete per aiutare l’Italia di domani.
La vostra è la terza task force, dopo quella sull’innovazione del ministro Pisano e il gruppo guidato da Vittorio Colao per la Fase 2. Non c’è il rischio di rendere ancora più caotica una situazione che, almeno all’esterno, già non risulta chiarissima?
Credo molto dipenderà dalla politica. Noi esperti siamo chiamati a lavorare e dare il nostro contributo per creare un Paese migliore in questa situazione difficile; ma poi starà alla politica riuscire a trovare la quadra di tutti gli input che le arriveranno. In ogni caso la nostra task force sarà in contatto con la commissione di Vittorio Colao proprio per collaborare ed evitare inutili sovrapposizioni.
Proprio sulla task force Colao si sono in questi giorni abbattute critiche per la presenza di sole 4 donne su 17 membri. È d’accordo con queste critiche?
Chiaramente considero la scarsa presenza femminile nella commissione Colao un problema. Ma credo che questa situazione testimoni la necessità dell’istituzione della nostra task force e debba essere di grande stimolo per il lavoro che abbiamo davanti.
Non avete paura di risultare una “foglia di fico” delle pari opportunità, dopo questo scivolone della task force Colao?
Assolutamente no. Il ministro Bonetti aveva già avviato la creazione del nostro gruppo molto prima che si conoscessero i membri della commissione Colao.
Uno dei cambiamenti sicuramente più radicali durante questa emergenza è stata l’applicazione su vasta scala del lavoro da casa meglio noto come smart working. Da esperta sul tema, come valuta questa accelerazione?
Da una parte sicuramente è un bene che questa innovazione, per molto tempo avversata da tanti, sia diventata quotidianità e quindi accettata, seppur a malincuore, da così tanti italiani. D’altra parte è però chiaro che si tratta di un’implementazione improvvisata ed estrema, che rischia di essere controproducente.
In che modo quest’applicazione dello smart working differisce da quella che aveva immaginato?
Partiamo col dire che smart working è un termine che esiste solo in Italia. In altri Paesi si parla di flessibilità al lavoro che concede una maggiore elasticità di orari per venire incontro alle esigenze della vita privata dei lavoratori e bilanciare la sfera familiare con quella lavorativa, così da permettere a entrambi i genitori di essere presenti nella vita di casa e allo stesso tempo di essere lavoratori. In questa modalità il lavoro telematico è in realtà previsto una volta alla settimana, alle volte anche una al mese, ed è quindi molto diverso dal telelavoro con orari spesso rigidi a cui assistiamo oggi in questa emergenza e che non deve essere confuso con la flessibilità del lavoro che ha già dato prova di essere un’ottima soluzione per coniugare vita privata e vita lavorativa.
Perché l’applicazione di questo modello dovrebbe oggi essere una priorità?
Il perché è già sotto gli occhi di tutti in questa emergenza: il distanziamento sociale e la chiusura delle scuole ha infatti lasciato i bambini soli a casa con i genitori. È chiaro che bisogna trovare sin da ora una modalità più elastica che permetta a queste persone di essere lavoratori e genitori allo stesso tempo. È assurdo pensare oggi di affidare questo compito solo ed esclusivamente alle madri; da questa situazione si esce solo ed esclusivamente collaborando.
A proposito del ruolo delle donne, sta facendo discutere l’analisi secondo la quale sette dei dieci Paesi che meglio stanno gestendo il virus abbiano come capo di governo una donna.
Sicuramente da studiosa so bene che questa correlazione non può avere alcun rapporto di causalità. Credo però che storie come queste dimostrino quanto serva all’Italia una task force come quella di cui faccio parte: oggi servono le migliori competenze per ripartire e credo che mettere le donne in condizioni di farlo e di poter essere le guide di questo cambiamento non sia nell’interesse delle donne, ma del Paese.