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Coronavirus e imprese, cosa sta succedendo? Il dossier

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Era la sera del 9 marzo ed eravamo tutti più ignari di cosa avrebbe significato la crisi di coronavirus mentre il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte annunciava in diretta i provvedimenti del Dpcm che avrebbe esteso le misure di contenimento del contagio a tutto il paese. Quelle misure, che termineranno in modestissima parte il 4 maggio, sono durate cinquantasei giorni, quasi due mesi, un lasso di tempo che esaspera la dicotomia bergsoniana tra tempo della scienza e tempo della vita. Una collana di perle che per molte imprese significherà ricostruire sulle macerie lasciate dal terremoto economico del lockdown. Per questo abbiamo deciso di farci raccontare, in prima persona, le difficoltà, i timori e le speranze degli imprenditori italiani di fronte a questa nuova e incerta ricostruzione. 

I fatturati

Cinquantasei giorni che hanno colpito più o meno tutti. A soffrire maggiormente sono stati piccole/medie imprese, commercianti, artigiani e professionisti. Il 48% delle imprese italiane ha dovuto chiudere, facendo restare a casa 7,1 milioni di persone. Roberto Monducci, direttore del dipartimento per la produzione statistica dell’Istat, segnala che il giro d’affari di queste imprese comprendeva 1.300 miliardi di fatturato (il 41,4% del totale) e 309 miliardi di valore aggiunto. Ma il calo di fatturato non sembra fare distinzioni sui codici Ateco.

Come ci racconta Andrea, 25 anni, imprenditore di seconda generazione che gestisce un’azienda vinicola e possiede un’attività di famiglia nella rifinizione tessile, in mano al padre e allo zio. L’attività vinicola ha continuato nella sua attività produttiva, essendo parte della filiera agroalimentare, ma le perdite ci sono state, soprattutto in termini di potenziale commerciale. “L’azienda vinicola è giovane e in espansione, se i canali commerciali di sponsorizzazione come fiere ed eventi saltano, oltre alle perdite effettive bisogna aggiungere anche i potenziali ricavi mancati”. L’attività tessile ha chiuso il 22 marzo, mettendo in cassa integrazione cento dipendenti, e con i ricavi praticamente a zero in questo periodo. “Per fortuna la mia famiglia è riuscita a creare un’azienda solida, ma sarà difficile ripartire, soprattutto perché il lavoro sarà meno”. 

Non solo c’è chi ha dovuto chiudere, ma anche chi non sa se e come potrà riaprire. Stefano, albergatore di 57 anni, ci offre uno spaccato del comparto turistico, uno dei maggiormente colpiti dall’emergenza coronavirus. “Sappiamo già che il 2020 è una stagione persa, come in parte potrebbe essere anche il 2021” dice, elencando i dubbi sulla possibile riapertura delle strutture alberghiere. “Riaprire sarà difficile, ma diventerà impossibile se non ci sarà chiarezza sulle linee guida e i presidi igienici da applicare, filtrano troppe indiscrezioni che rischiano di creare ancora più confusione”. E infine fa notare “a differenza di altri, per noi è impossibile reinventarsi…”. Si aspetta trepidanti una data per la riapertura di un comparto che, insieme all’indotto, contribuisce per il 13% del Pil italiano, con 232 miliardi e 3,5 milioni di addetti

In questo momento molte imprese hanno bisogno di liquidità, ma senza una ripresa economica la sola politica monetaria non sarà sufficiente.

Business models

Questo giovedì l’Istat ha certificato che il crollo del Pil nel primo trimestre è stato del 4,7%, un dato terrificante dovuto principalmente alla chiusura delle attività non essenziali, che contribuiscono al 28-30% del valore aggiunto. Molti imprenditori sono stati forzati ad adattarsi alle misure imposte dal governo, modificando i propri modelli di business.

Luca, 53 anni, ha due attività, una produce accessori per fitness e una di editoria sportiva. “È difficile quando tutti i tuoi clienti (le palestre, ndr) vengono chiusi e non sai quando riapriranno. Abbiamo dovuto riconvertire le nostre attività commerciali dal B2B al B2C, ma questo ci permette semplicemente di coprire alcuni costi”.  Ci esprime i suoi timori per il futuro: “nel settore del fitness molte aziende saranno costrette a chiudere, soprattutto quelle meno strutturate. Si parla poco di noi, ma abbiamo bisogno di finanziamenti a fondo perduto per mantenere in piedi il settore, altrimenti sarà una catastrofe”. Per fortuna sembrano muoversi in questa direzione le intenzioni del ministro per lo sviluppo economico Patuanelli, che promette lo stanziamento a fondo perduto di 10 miliardi per le Pmi.

Si adatta anche Claudio, 63 anni, proprietario di un vero e proprio regno nel settore turistico, che comprende strutture alberghiere e uno stabilimento balneare di trentacinquemila metri quadri. “Abbiamo capito che il 2020 sarà una grande incognita, quindi non ci resta che ri-organizzare le attività all’interno del nostro stabilimento, garantendo distanziamento e igienizzazione”. Metterebbe la firma per chiudere l’anno con il 50% del fatturato dell’anno precedente, e ci racconta che nel frattempo si è mobilitato per rendere i canali di comunicazione social più attivi possibile: “vogliamo rimanere vicino alla nostra community, e far capire che appena si potrà tornare in spiaggia noi saremo pronti”.

Insomma, “chi ha un perché per vivere può sopportare quasi ogni come” citando Nietzsche.

La liquidità

Le spese e i costi fissi (come utenze, affitti e canoni) gravano sulle casse delle imprese, ormai a secco da lungo tempo. Un parallelo amaro, quello tra crisi sanitaria ed economico-finanziaria, con la mancanza di respiro che colpisce sia i pazienti affetti da Covid che le imprese. Rimanendo chiusi si rischia di creare una “dispnea finanziaria” difficile da sostenere. Con il decreto liquidità il governo ha messo in campo una serie di misure volte ad aiutare le imprese più in difficoltà. Nello specifico è stato creato un fondo di garanzia per garantire supporto finanziario alle imprese attraverso le banche, si è esteso il golden power anche alle Pmi e sono stati sospesi i versamenti contributivi e tributari per i mesi di marzo e aprile.

I prestiti a garanzia statale si rivelano uno strumento a cui fanno o faranno affidamento in molti, anche se le istruttorie delle banche rimangono più o meno quelle di sempre. Per ottenere un prestito, ci dicono, si deve aspettare svariate settimane. Molti lamentano “l’effetto annuncio” di questi provvedimenti, che ha generato confusione. Ci raccontano di imprenditori recatisi in banca per cercare di aprire le istruttorie prima ancora che il decreto fosse entrato in vigore. Al 29 aprile sono 37.210 le richieste di garanzia giunte all’apposito fondo istituito con il decreto “Cura Italia”, per un importo finanziato di quasi 3,6 miliardi di euro. E c’è ragione per pensare che i numeri aumenteranno esponenzialmente. 

A creare malcontento è anche la mancanza di certezza sulle proroghe e le sospensioni dei versamenti fiscali e contributivi. Giovanni, 55 anni, ritiene scorretto il comportamento del governo. “Il 16 marzo ci hanno detto che la sospensione dei versamenti tributari e contributivi era solo per le P.Iva con fatturato sotto i 2 milioni di euro, poi il 9 aprile un altro decreto ha esteso la sospensione anche per chi aveva fatturati superiori, ma a quel punto noi avevamo già pagato. È ingiusto, perché al momento della scadenza l’alternativa erano le sanzioni amministrative”.  

Smart working e tecnologia

È inutile negare che il virus cambierà la nostra concezione del mondo e le nostre abitudini. Per quanto riguarda le imprese, invece, questo ha significato un’accelerazione nel lento e tortuoso percorso di digitalizzazione delle Pmi italiane. Come ci racconta Silvia (56 anni), che cita Einstein: “ogni crisi è un’opportunità, ed è questo quello che sto cercando di trasmettere ai miei dipendenti”. Possiede un brand di moda, ed è piacevolmente soddisfatta dei risultati ottenuti tramite il lavoro agile, il cosiddetto smart working. “La produttività delle persone che lavorano con me è quella di sempre, ma questo arrangiamento flessibile del carico di lavoro permette a tutti di essere più a loro agio”. Nel 2019 erano circa 570 mila gli impiegati tramite modalità di lavoro agile o telelavoro, il 20% in più rispetto all’anno precedente, riporta l’Osservatorio sulla digital innovation del Politecnico di Milano.

Quest’ultimo sottolineava già a marzo come lo stato tecnologico delle piccole medie imprese italiane evidenziasse diverse lacune. In un campione di 1538 imprese, il 26% non aveva ancora intrapreso nessun percorso di trasformazione digitale. 

Per Francesco, 45 anni, proprietario di un’impresa che progetta cucine ed arredi su misura, “con il lockdown abbiamo assistito a una vera e propria accelerazione dello sviluppo tecnologico nelle aziende, e penso sia un bene. Ci siamo accorti che molte pratiche che eravamo soliti utilizzare non erano efficienti e che c’erano tecnologie in grado di ottimizzare i costi che difficilmente saranno abbandonate anche quando l’emergenza sarà terminata”. Ed ha una speranza per il futuro: “nonostante il calo dei ricavi, credo che la quarantena porterà un’attenzione maggiore nei confronti della casa, che diventa una dimensione ancora più essenziale delle nostre vite”.

Antonio Maria De Rosa
A Napoli mi dicono "sei romagnolo", in Romagna mi dicono "sei napoletano"; insomma, penso di essere cosi noioso che nessuno mi vuole. Autoritario nei modi, libertario di idee. Ho tre passioni: calcio, cucina e Orizzonti Politici. Attualmente studio in Bocconi. Sogno nel cassetto? Diventare astronauta!

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