La legge Rognoni-La Torre del 1982 – strumento molto efficace per “colpire le mafie al cuore” – non lasciò indifferenti gli ambienti della criminalità organizzata, tanto che le reazioni non si fecero attendere: per oltre dieci anni, infatti, lo scontro tra Stato ed organizzazioni mafiose raggiunse livelli mai toccati prima e a farne le spese furono soprattutto persone legate alle istituzioni, quali ad esempio magistrati, politici, membri delle forze dell’ordine e attivisti.
In un contesto in cui omicidi e stragi diventavano quasi all’ordine del giorno, il popolo italiano decise di scendere in piazza per dire no alla violenza e alla prepotenza della criminalità organizzata. Nacquero movimenti e associazioni, fra cui spiccava Libera contro le mafie, fondata da don Luigi Ciotti e sin da subito fondamentale per giungere all’approvazione della legge che prese il nome da essa e che stabilì il riutilizzo pubblico e sociale dei patrimoni confiscati alle mafie.
Ma come nacque l’associazione Libera? Quali furono le tappe che portarono alla legge n.109/1996? Quali conseguenze ebbe tale norma sulla società?
Lo scontro diretto tra Stato e criminalità organizzata
Nonostante la legge n.646 del 1982 rappresentasse un punto di svolta nella lotta alla mafia, il clima di violenza e tensione intensificatosi tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80 con gli omicidi da parte di Cosa nostra – tra gli altri del Presidente della Regione Piersanti Mattarella, del Generale Carlo Alberto dalla Chiesa e del giornalista Peppino Impastato – non accennava a placarsi, mettendo a dura prova lo Stato e la società italiana. Fu anche a causa delle reazioni della mafia alla legge Rognoni-La Torre, infatti, che il decennio 1983-1993 fece segnare un’escalation nella lotta tra Stato e criminalità organizzata.
Nel 1983, Cosa nostra uccise tramite un’autobomba il magistrato Rocco Chinnici – ideatore del pool antimafia – e la sua scorta, continuando a mietere vittime per tutti i due anni successivi. Ciò che colpiva, oltre alla ferocia degli attentati e delle stragi, era l’estrema varietà delle vittime, che andava da esponenti delle forze dell’ordine, come ad esempio il dirigente della Squadra Mobile di Palermo Ninni Cassarà, a noti personaggi della società civile (come l’allora presidente del Palermo Calcio Roberto Parisi), fino a persone comuni che potessero in qualche modo intralciare i piani criminali di Cosa nostra.
Nel 1986 arrivò una grande risposta da parte dello Stato: grazie alle indagini del pool voluto da Chinnici e composto da figure come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, infatti, la mafia venne colpita in maniera durissima davanti agli occhi di milioni di telespettatori (molti dei quali si resero conto, forse per la prima volta, che una reazione alla criminalità organizzata era possibile) in quello che è tuttora ricordato come il Maxiprocesso di Palermo.
Persino un attacco frontale di tale portata non fu però sufficiente a placare la ferocia di Cosa nostra: la mafia voleva difendere il proprio potere e, dopo essersi vendicata di molti pentiti e testimoni a cavallo tra gli anni ’80 e ’90, ricominciò a colpire esponenti di spicco delle istituzioni, su tutti l’eurodeputato democristiano Salvo Lima (ucciso il 12 marzo 1992 come ritorsione nei confronti dei provvedimenti più severi adottati dal governo Andreotti) e, soprattutto, i giudici Falcone (strage di Capaci del 23 maggio 1992, in cui perse la vita anche la moglie Francesca Morvillo) e Borsellino (Strage di via d’Amelio, 19 luglio 1992), assassinati insieme alle loro scorte.
Dalla risposta dell’opinione pubblica al ritorno della violenza
L’opinione pubblica era fortemente scossa e si generò un’importante richiesta di giustizia, con molti esponenti della società civile, come ad esempio il sacerdote palermitano Don Pino Puglisi e il giornalista messinese Beppe Alfano, che si fecero portavoci – diventando poi martiri – delle istanze di un popolo che già da diversi mesi aveva cominciato ad associarsi in realtà contraddistinte da una forte ed esplicita avversione alla criminalità organizzata. Tra queste, un esempio è stato il partito politico La Rete, fondato nel 1991 da Leoluca Orlando e Nando dalla Chiesa e rappresentato in Parlamento da 12 deputati e 3 senatori a seguito delle elezioni dell’Aprile 1992.
Malgrado l’arresto del boss corleonese Totò Riina nel 1993, anche questa volta i colpi di coda mafiosi non tardarono ad arrivare: si era infatti in quello che passò alla storia come “l’anno delle bombe”. Le bombe esplosero a Roma il 14 maggio (attentato al giornalista Maurizio Costanzo, che provocò 24 feriti, ma risparmiò il principale obiettivo, rimasto illeso), a Firenze il 27 maggio (Via dei Georgofili, 5 morti e 48 feriti) e a Milano (via Palestro, 5 morti e 12 feriti) esattamente due mesi dopo, nello stesso giorno in cui Cosa Nostra tornò a colpire la Capitale provocando 22 feriti.
La società sceglie di essere “Libera”
Nei primi anni Novanta, le reazioni emotive seppero trasformarsi in un impegno civile deciso: nei luoghi di maggiore oppressione vi furono importanti prese di posizione (qualcuno forse ricorderà una Palermo piena di lenzuoli bianchi contro Cosa nostra già nel 1992). In generale, l’intera Penisola fu attraversata da grande fermento sociale. L’insieme di queste esperienze servì come terreno fertile per la creazione di un movimento civile unito ed organizzato.
Nel 1994 don Luigi Ciotti – già fondatore del Gruppo Abele, gruppo torinese che opera in situazioni di disagio e/o emarginazione -, insieme ad altre storiche associazioni, intercettò questo bisogno e lo rilanciò. Si creò così un cartello di associazioni contro le mafie, che l’anno successivo, il 25 di marzo, si costituì ufficialmente e diede vita a “Libera. Associazioni, nomi e numeri contro le mafie”.
La creazione di “Libera”
Dunque, si decise di non costituire un’entità nuova e centralizzata, ma di mettere insieme gruppi con proprie storie ed identità accomunati dalla consapevolezza che la lotta alla mafia è una responsabilità di tutti ed un compito anche sociale, politico e culturale. Ci fu una grande partecipazione fin da subito e risposero alla chiamata più di trecento gruppi ed associazioni differenti e già operanti in diversi ambiti. La forma, mantenuta ancora adesso, era dunque quella di una rete dinamica. Tra le molte, fin dall’inizio, ci sono Arci, Cgil e Legambiente e storiche associazioni impegnate per la democrazia, la memoria e l’impegno.
L’area di interesse della nascente rete fu dunque già in partenza ampia e variegata, ma si definirono almeno quattro direttrici principali: la formazione e i percorsi educativi come strumento di prevenzione, la giustizia e l’anticorruzione, la memoria viva e l’impegno per tutte le vittime innocenti delle mafie e il riutilizzo dei beni confiscati alla criminalità organizzata.
La Legge n. 109/1996, per tutti la “Legge Libera”
Proprio su quest’ultimo punto, nel suo primo anno di vita, ancor prima della sua costituzione, Libera si fece promotrice di una petizione popolare per poter destinare e riutilizzare i beni confiscati per scopi sociali, culturali e istituzionali. La nascente rete riuscì in una straordinaria mobilitazione popolare, che portò alla raccolta di oltre un milione di firme, che furono fondamentali per far approvare in parlamento una legge: la n.109/96, “Disposizione in materia di gestione e destinazione di beni sequestrati e confiscati”. Questa legge, di fatto, delineò l’iter per la gestione di questi beni.
La legge n.109/1996, proprio per il ruolo centrale di Libera nella sua genesi, è conosciuta ai più come la “Legge Libera”.
Si è inserita in un quadro normativo preesistente e, naturalmente, è collegata all’articolo 416 bis del Codice Penale (introdotto con la legge Rognoni-La Torre del 1982), che al comma 7 dell’art. 1 introdusse l’obbligo di confisca patrimoniale. La nuova legge n.109 riuscì a completare il percorso immaginato da Pio La Torre e aggiunse la possibilità di destinare i beni e le aziende, dopo la confisca definitiva, a enti pubblici o associazioni del terzo settore, cosicché potessero gestirli e riutilizzarli per fini sociali, culturali e istituzionali. In questo modo, alla repressione si aggiunse una riappropriazione da parte della società dei beni usati dalla criminalità.
Le conseguenze della “Legge Libera” in Italia
Queste nuove disposizioni hanno portato con il tempo a modelli di gestione partecipata, con una nuova sinergia tra gli enti locali – come Comuni, Province, Regioni – e le realtà del Terzo Settore – come associazioni e cooperative sociali – che hanno saputo rigenerare i beni confiscati, trasformandoli in risorse per la collettività.
Grazie a questa legge, le case, i terreni, i veicoli e le aziende che erano seme e frutto del potere criminale, possono essere affidati in concessione o comodato d’uso gratuito a organizzazioni che li convertono in spazi di aggregazione e accoglienza o in luoghi di lavoro legale o in presidi di giustizia sociale e di cultura della legalità.
Soprattutto nel sud Italia molte cooperative sociali hanno iniziato a gestire direttamente i terreni agricoli confiscati e hanno potuto creare alternative concrete allo sfruttamento e al caporalato. L’esperienza di “Libera Terra” rappresenta uno degli esempi più virtuosi di questo modello di riutilizzo. Così nella Penisola sono fiorite scuole, comunità, centri di aggregazione, spazi culturali e cooperative sociali. Il riutilizzo di questi luoghi ha, dunque, innescato trasformazioni economiche, sociali e culturali e la conversione delle aziende ha creato nuovi spazi di opportunità, lavoro e socialità.
*Immagine di copertina: [Uno striscione comparso a Castel Volturno nel 2012 in occasione della confisca di un bene alla camorra - Antonio Maria Mira]
Testo a cura di Vittorio Fiaschini (Orizzonti Politici) e Anita Meschia (Legalità in Movimento)





