Il 18 e il 19 luglio 2025 si è svolta presso il Palazzo di Giustizia di Palermo la due giorni su “Le sfide alla criminalità organizzata internazionale: scenari europei e latino-americani della cooperazione giudiziaria internazionale”. Il convegno – promosso dal Ministero della Giustizia e dalla Direzione Nazionale Antimafia – ha visto la partecipazione di alcuni dei più importanti procuratori dell’America Latina, impegnati in prima linea nella lotta al crimine organizzato, oltre che dei preminenti esponenti dell’antimafia italiana.
Tale convegno ispira la seguente analisi, che vuole tracciare un parallelismo tra la situazione italiana e quella dell’America Latina, capendone similitudini e differenze. Inoltre, questa analisi ambisce a definire l’influenza del metodo italiano sui paesi latino-americano nel contrasto alla criminalità organizzata attraverso la confisca dei beni.
La data del convegno di Palermo
La data del convegno non è stata scelta casualmente, tant’è che la conclusione dei lavori coincideva con il 33esimo anniversario della Strage di Via D’Amelio, in cui persero la vita Paolo Borsellino, Emanuela Loi, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina, Agostino Catalano e Vincenzo Li Muli.
Un tributo, quello della Procura Nazionale Antimafia, che quindi non si è ridotto ad uno sterile ricordo del passato, ma che ha voluto dare concretezza alla lezione di Borsellino attraverso uno scambio di conoscenze con i colleghi che, in America Latina, si trovano dinanzi a situazioni già vissute a Palermo durante la seconda guerra di mafia e durante la sfida allo Stato negli anni ‘79-’92.
Il modello italiano nella lotta alla criminalità
L’Italia in molti contesti fa scuola nel contrasto al crimine organizzato: perché se è vero che la mafia italiana sia stata di grande ispirazione per i gruppi criminali nel mondo, è altrettanto vero che le istituzioni italiane hanno rappresentato un faro nella lotta ad essi.
Lo capì subito l’FBI, allorché Giovanni Falcone si precipitò negli Stati Uniti per prendere parte alle indagini sulla cosiddetta Pizza Connection, che gettò luce sul traffico intercontinentale di eroina. Un apporto fondamentale quello di Falcone, tanto da impressionare gli agenti americani e che gli valse una statua dedicata fuori dalla sede centrale del Federal Bureau a Quantico, in seguito alla Strage di Capaci. Lo capirono subito gli inquirenti tedeschi, quando un ventennio fa si consumò il massacro di Duisburg in cui vennero trucidati sei ragazzi fuori da una pizzeria italiana. Indagini che brancolarono nel buio fino a quando la Procura di Reggio Calabria non intervenne per riferire ai colleghi che la chiave per risolvere il caso di Duisburg si trovava a oltre duemila chilometri di distanza, in un piccolo paesino arroccato sull’Aspromonte, che prende il nome di San Luca ed è considerato la culla della ‘ndrangheta.
I cambiamenti nella geografia criminale
Gli Stati Uniti, la Germania e molte altre nazioni rappresentano solo una parte degli esempi che potrebbero testimoniare l’efficacia delle autorità italiane nella lotta alla mafia. Ma da alcuni anni la geografia criminale internazionale sta attraversando un riposizionamento profondo, segnato da dinamiche centrifughe e dalla ricerca di nuovi spazi operativi. L’epicentro di questo mutamento è l’America Latina, divenuta il fulcro di una competizione criminale globale.
Il traffico di cocaina — motore economico da decenni del crimine organizzato — ha consolidato il ruolo dei grandi gruppi criminali latino-americani. Le sue origini moderne risalgono agli anni Settanta, quando il Cartello di Medellín guidato da Pablo Escobar proiettò la Colombia al centro del narcotraffico internazionale, aprendo una stagione inedita sia sul piano criminale sia su quello economico.
Con il declino dei grandi cartelli colombiani, la leadership è passata progressivamente alle organizzazioni messicane, in particolare il Cartello di Sinaloa, riconosciuto per l’elevata specializzazione logistica e per la capacità distributiva della cocaina. La penetrazione di queste organizzazioni si è poi estesa a buona parte dell’America centrale e meridionale, generando un sistema reticolare che oggi interagisce direttamente con le mafie europee.
Una conferma recente di questa interdipendenza arriva dall’arresto in Colombia di un presunto esponente del vertice della ’Ndrangheta, attivo nel coordinamento delle spedizioni di cocaina verso l’Europa. Questo episodio evidenzia come la presenza italiana nel continente non sia più marginale, ma integrata pienamente nel traffico globale.
Il metodo italiano
Così si torna al punto di partenza: Palermo. Una città che porta con sé una storia segnata dal sacrificio e dalla resistenza civile, e che proprio per questo diventa oggi un luogo di confronto internazionale per magistrati e investigatori che fronteggiano nuove forme di criminalità. Non si è trattato, quindi, di un convegno autoreferenziale o retorico, bensì di uno spazio di scambio operativo di informazioni e di modelli di azione. Condividere esperienze e strategie diventa essenziale per comprendere come Palermo sia cambiata e quali siano state le strade percorse dallo Stato per sconfiggere l’ala stragista di Cosa nostra.
In Italia, la lotta alla criminalità organizzata ha assunto nel tempo una forma unica nel panorama mondiale: non solo repressione penale, ma anche strategia patrimoniale, confisca preventiva dei beni e riutilizzo sociale come strumenti di contrasto al potere economico delle mafie. Questa impostazione ha reso l’Italia un modello osservato con attenzione da molti paesi, in particolare dell’America Latina, dove la presenza di reti criminali complesse richiede risposte innovative e integrate. Negli ultimi anni, alcuni Stati latino-americani hanno adottato misure legislative direttamente ispirate al “metodo italiano”, segno di un processo di circolazione giuridica che va oltre i confini europei.
Il contesto latino-americano: un ecosistema criminale in trasformazione
In America Latina la criminalità organizzata si presenta come un sistema diffuso, adattivo e profondamente radicato nei territori. È un’architettura criminale complessa, dove convivono gruppi armati, reti di narcotraffico, attori politici corrotti, segmenti istituzionali vulnerabili e interessi economici transnazionali. In paesi come Colombia, Messico, Brasile e Argentina, la forza delle organizzazioni criminali non risiede soltanto nella violenza, ma nella capacità di infiltrare economie lecite, distorcere istituzioni pubbliche e orientare gli equilibri locali. Le analisi dell’UNODC mostrano, infatti, come il narcotraffico e la corruzione operino in qualità di motori di tale pervasività, favorendo il consolidamento delle reti sociali criminali.
Il sistema si consolida ulteriormente con la creazione dell’Agenzia Nazionale per i Beni Sequestrati e Confiscati (ANBSC), che centralizza la gestione patrimoniale e favorisce il riutilizzo sociale degli asset sottratti alle mafie. Negli ultimi dieci anni, attraverso progetti finanziati dall’Unione europea, attività di cooperazione giudiziaria e missioni tecniche, questo modello ha iniziato a ispirare riforme normative in diversi paesi latino-americani. ONG italiane come Libera — la prima a portare in America Latina una traduzione operativa del modello di riutilizzo — hanno avuto un ruolo decisivo nella diffusione del paradigma, insieme a iniziative di istituzioni come Transparency International, impegnate a rafforzare trasparenza e integrità nelle amministrazioni pubbliche.
Colombia: estinzione del dominio e restituzione dei beni alla collettività
La Colombia rappresenta oggi uno dei casi più significativi nell’adozione di strumenti di confisca civile ispirati all’esperienza italiana. Il passaggio decisivo si ha nel 2014 con l’approvazione della Ley 1708, il Código de Extinción de Dominio, che istituzionalizza un meccanismo di confisca patrimoniale autonoma dallo svolgimento del processo penale. La legge consente allo Stato di dichiarare l’estinzione del diritto di proprietà su beni che risultino connessi ad attività criminali, anche senza una sentenza di condanna, purché esistano sufficienti elementi probatori nei confronti della loro origine illecita.
Si tratta di uno degli strumenti più potenti introdotti negli ultimi decenni in America Latina, e la sua portata è evidente: permette allo Stato di agire rapidamente contro patrimoni derivanti da narcotraffico, riciclaggio, corruzione, terrorismo, tratta di persone e altre forme di criminalità organizzata. La Fiscalía colombiana ha più volte sottolineato come la extinción de dominio sia divenuta un pilastro nella strategia di contrasto alle finanze criminali, con migliaia di beni sottratti ogni anno, tra proprietà rurali, ville, terreni, imprese agricole, società di comodo e conti bancari.
La gestione delle confische e la restituzione dei beni
La gestione degli asset confiscati è affidata alla Sociedad de Activos Especiales (SAE), un’agenzia statale che opera in maniera analoga all’ANBSC italiana. La SAE si occupa della presa in carico dei beni, della loro amministrazione e della loro destinazione finale: vendita all’asta, affitto, concessione temporanea o assegnazione a progetti pubblici e sociali. La vasta dimensione territoriale del paese e la storica presenza dei cartelli hanno fatto sì che nei registri della SAE confluissero negli ultimi anni migliaia di immobili e terreni, molti dei quali situati in zone rurali precedentemente controllate dai narcos.
L’effettiva restituzione sociale dei beni confiscati è uno degli aspetti più innovativi del sistema. In regioni come Antioquia, Córdoba, Meta e Nariño, alcune terre un tempo appartenute a gruppi criminali sono state affidate a cooperative contadine, associazioni educative o progetti di sviluppo economico locale: molte iniziative mostrano come la destinazione sociale possa incidere concretamente sulle comunità rurali più vulnerabili. Nonostante finora i casi siano ancora limitati, rappresentano un’evoluzione significativa rispetto alla tradizionale gestione passiva dei beni confiscati.
Il coinvolgimento italiano in questo processo è stato consistente. Magistrati, investigatori, funzionari dell’ANBSC e rappresentanti della società civile italiana hanno partecipato per anni a programmi di formazione, scambio e capacity building, trasferendo know-how sul sequestro anticipato, sulle procedure di gestione e sui modelli di riutilizzo sociale dei beni confiscati. La stessa Libera ha documentato come, benché non esista ancora una legge colombiana esplicitamente finalizzata al riutilizzo sociale come quella italiana, alcune esperienze pilota — tre casi già pienamente operativi — rappresentino un primo passo verso l’adozione di un modello strutturato a livello nazionale.
Le criticità del sistema colombiano
Tuttavia, il sistema colombiano presenta anche delle criticità: la lentezza dei procedimenti, l’accumulo di beni non assegnati, la difficoltà di gestione nelle aree rurali più insicure e problemi di trasparenza amministrativa. Un rapporto dell’UNODC ha sottolineato come la sostenibilità del modello richieda istituzioni più robuste, una maggiore partecipazione delle comunità locali e una strategia di lungo periodo capace di trasformare la confisca da misura emergenziale a politica pubblica integrata.
Argentina: estinzione del dominio e il progetto di riutilizzo sociale (“Bien Restituido”)
Nel 2017, anche l’Argentina ha adottato una riforma significativa, ovvero il Decreto 62/2019, che introduce il principio di “Extinción de Dominio”, seguendo le orme del modello italiano. La legge introduce un’azione civile e non penale: ciò significa che l’autorità ha la possibilità di eseguire la confisca del bene anche in assenza di una condanna definitiva a carico dell’imputato. A quest’ultimo, proprio come nel caso italiano, viene applicato il principio di inversione dell’onere della prova, e ha quindi la facoltà di dimostrare l’origine lecita del bene per poterne rientrare in possesso.
Proprio in Argentina, dal 2021 ha preso piede il progetto “Bien Restituido”, co-finanziato dall’Unione Europea e dal Ministero degli Esteri italiano attraverso l’IILA (l’Organizzazione Internazionale italo-latino americana), ideato e promosso da Libera in collaborazione con le tre organizzazioni argentine Fundacion Multipolar, Circolo Giuridico di Argentina e ACIJ (Asociaciòn Civil por la Igualdad y la Justicia). L’obiettivo è quello di promuovere una riforma legislativa, ispirata alla Legge Libera italiana, che si propone di implementare il riutilizzo sociale dei beni confiscati alla criminalità organizzata, ottenuti proprio grazie alla legge sull’Extinción de Dominio.
Le difficoltà normative e nell’implementazione del riutilizzo sociale dei beni
Tale riforma è più che mai necessaria, dal momento che in Argentina si contano oltre cinquemila beni confiscati alla criminalità senza ancora una destinazione d’uso definita. Solo una piccola parte ha avuto una qualche forma di riconversione ad uso sociale, a causa della moltitudine di norme, sentenze giurisprudenziali e decreti governativi, che hanno creato un ginepraio di atti spesso sovrapposti e contraddittori. Il disegno di legge avrebbe, quindi, la funzione di implementare un impianto normativo unico e chiaro, che permetta alle Istituzioni e alle associazioni di sapere con esattezza quale sia l’iter da seguire per la riassegnazione e il riutilizzo sociale dei beni.
Sebbene sia l’Unione Europea che addirittura Papa Francesco si siano espressi favorevoli all’introduzione di tale legge, il procedimento legislativo, firmato e presentato da oltre 20 parlamentari di 6 diversi partiti, non ha avuto ancora un seguito concreto, anche a causa della forte instabilità politica ed economica argentina. Il disegno di legge, al momento, non è ancora stato discusso e approvato dal Congresso argentino. Ciò nonostante, l’introduzione nel dibattito pubblico del riutilizzo sociale dei beni ha già sortito i suoi primi effetti: a maggio 2024, infatti, si è tenuto il primo seminario regionale su recupero e destinazione a uso sociale dei beni organizzato dall’IILA, a cui hanno partecipato delegazioni di 14 Paesi dell’America Latina e dei Caraibi, oltre che di cinque Paesi europei (Italia, Spagna, Germania, Portogallo e Francia).
La sensibilità verso tale tematica sta prendendo piede nella regione, avvalorata proprio dalle (finora poche) esperienze di riutilizzo dei beni già in atto in Argentina. Nella confusione delle normative che attualmente regolano inefficacemente la destinazione d’uso dei beni confiscati, alcune realtà sono state in grado di ottenere in gestione alcuni spazi per costruirvi dei progetti di importante valenza sociale e comunitaria.
Il caso di “Casita Azul”
Ne è un esempio la storia di Casita Azul, situata a Mar del Plata, il più importante centro turistico balneare del Paese affacciato sull’oceano Atlantico, a circa 400 chilometri dalla capitale Buenos Aires.
Durante l’alta stagione, decine di migliaia di persone si riversano in città, dando vita a uno dei centri abitati più vivaci del Paese. Ma a partire dagli anni ‘90 fino agli anni 2010, mentre lo sviluppo turistico sembrava inarrestabile, la città ha contemporaneamente attraversato uno dei periodi più oscuri della propria storia. Centinaia di postriboli e case chiuse sono germinati ovunque, nell’indifferenza o con la complicità delle autorità locali, dando sfogo a un intenso turismo sessuale che per decenni ha afflitto Mar del Plata.
Migliaia di donne, spesso provenienti da contesti disagiati di altri Paesi come Repubblica Dominicana e Paraguay, venivano attirate in città con la promessa di facili guadagni, salvo poi cadere vittime della tratta di esseri umani. Casita Azul, a dispetto del suo nome e del suo aspetto apparentemente innocui, fu per anni uno dei luoghi simbolo della prostituzione locale, in cui numerose donne venivano segregate e costrette a prostituirsi tutti i giorni, in condizioni igieniche disumane e senza alcun diritto.
Tutti sapevano in città: bastava aprire un qualsiasi quotidiano locale per vedere le numerosissime inserzioni che facevano pubblicità a posti come Casita Azul, rendendo Mar del Plata una vera e propria industria del sesso. Per anni, questi luoghi dell’orrore hanno agito indisturbati, nella totale indifferenza della società civile e delle istituzioni.
“Casita Azul” e la riconversione sociale del bene
Nel 2008 venne introdotta la Legge per la prevenzione e la sanzione della tratta di esseri umani e l’assistenza alle sue vittime, a cui si aggiunsero una serie di denunce e testimonianze di vittime a processo, che negli anni successivi portarono a una serie di retate che chiusero definitivamente Casita Azul. Il bene confiscato ai precedenti gestori dell’immobile, tutti condannati in definitiva per traffico di essere umani a scopo di sfruttamento sessuale, è ora diventato il Centro della Memoria e della Lotta alla Tratta di Esseri Umani, che svolge un’importante funzione sociale e comunitaria di sensibilizzazione e di sostegno alle vittime del commercio sessuale.
L’esperienza di Casita Azul e della sua riconversione sociale mostra quanto sia rilevante per una società lo strumento del riutilizzo dei beni confiscati alla criminalità, non solo come strumento di repressione, ma soprattutto per il ruolo sociale che può avere all’interno di una comunità. Libera porta avanti da anni la sua battaglia attraverso progetti e visite di proprie delegazioni in Argentina, nella speranza che il disegno di legge sul Bien Restituido diventi presto realtà.
Il Messico e i “beni rubati al popolo”
In una nazione afflitta dall’emergenza criminale come il Messico, le istituzioni e la società civile lottano per fare progressi nel contrasto alla criminalità organizzata. A partire dagli anni ‘90, Il Paese ha assistito all’espansione criminale dei Cartelli della droga, ridisegnando le mappe criminali globali e catapultando il Messico verso una spirale di violenza senza precedenti. Parliamo di omicidi (oltre 30mila nell’anno passato, una media spaventosa di 82 al giorno), di sequestri di persona, di desaparecidos, di scenari di guerriglia urbana e di fosse comuni, che sono all’ordine del giorno e che ben restituiscono la gravità della situazione. Il Governo federale ha negli anni adottato delle policy che hanno fortemente militarizzato il Paese, tramite il vasto utilizzo e la concessione di poteri di polizia all’esercito, che sono state oggetto di forti critiche per l’inefficacia dei risultati e per aver reso le città dei veri e propri campi di battaglia.
Sul versante dei beni confiscati, è stata introdotta nel 2019 la Legge Nazionale sull’Estinzione di Dominio, che ha abrogato le varie leggi statali sul tema e le disposizioni amministrative in conflitto con essa, andando a implementare un testo unico per tutto il Paese. Quindi, lo Stato può effettuare la confisca dei beni, anche in assenza di condanne definitive, di cui si sospetta l’origine illecita e se collegati a reati gravi come criminalità organizzata, corruzione, traffico di droga, riciclaggio di denaro e traffico di esseri umani. Una volta sequestrati, i beni vengono poi gestiti da un organo nazionale che è l’INDEP, ovvero l’Instituto para Devolver al Pueblo lo Robado, traducibile come “l’Istituto per ridare al popolo ciò che è stato rubato”, curiosa denominazione adottata per volontà dell’ex presidente Andrés Manuel López Obrador.
L’INDEP e le criticità del modello messicano
Una volta entrato in possesso del bene, l’INDEP procede a incaricarsi della gestione, ma anziché tentare di assegnarlo a qualche associazione con il fine di convertirlo in una realtà sociale, l’Istituto mette all’asta il bene, mobile o immobile, il cui ricavato viene poi destinato al finanziamento dei programmi sociali e del welfare. Così facendo, l’INDEP si trasforma in una vera e propria casa d’aste, e sul cui sito è possibile trovare di tutto: gioielli, orologi rolex, automobili, bancali di merce varia, ma anche oggetti bizzarri come parrucche, mezzi per il movimento terra, tir e videogiochi.
Questo sistema ha nel tempo presentato diverse criticità e falle come, ad esempio, l’opaca gestione dei proventi delle aste, e la “scomparsa” di alcuni beni confiscati e mai più ritrovati, a causa di un sistema di monitoraggio e di schedatura poco trasparente.
Verso una cooperazione strutturale
La centralità assunta dall’America Latina nel nuovo ecosistema criminale globale rende evidente come nessun Paese possa più affrontare le sfide della criminalità organizzata con strumenti isolati. Il “modello italiano” – frutto di decenni di innovazioni normative, cooperazione inter-istituzionale e mobilitazione civile – non rappresenta una ricetta esportabile in modo meccanico, ma un riferimento metodologico: intervenire sui patrimoni illeciti, rafforzare le strutture investigative, garantire autonomia alla magistratura, costruire alleanze con il tessuto sociale.
Il convegno avvenuto a Palermo mostra che la risposta alle reti criminali transnazionali richiede a sua volta reti istituzionali altrettanto transnazionali. Le esperienze di Colombia, Argentina e Messico evidenziano un percorso già in atto, ma ancora incompiuto: un processo di adattamento locale del metodo italiano, che deve evolvere in una vera architettura multilaterale di cooperazione giudiziaria e amministrativa.
Se la criminalità continua a globalizzarsi, anche gli strumenti di contrasto devono farlo. In questo senso, l’Italia può giocare un ruolo strategico come “hub” europeo di competenze nel contrasto alle mafie, facilitando standard comuni, programmi di capacity building e scambi operativi stabili. La sfida dei prossimi anni sarà consolidare questa interdipendenza, trasformando collaborazioni episodiche in meccanismi permanenti di coordinamento.
Non si tratta di esportare un modello, ma di costruire insieme un linguaggio comune nella lotta alla criminalità organizzata: un lessico fatto di strumenti patrimoniali efficaci, tutela dell’indipendenza giudiziaria e coinvolgimento della società civile. Solo così il patrimonio di esperienze maturato in Italia potrà contribuire in maniera duratura al rafforzamento istituzionale dell’America Latina e, più in generale, alla sicurezza democratica globale.
*Immagine di copertina: [Uno striscione comparso a Castel Volturno nel 2012 in occasione della confisca di un bene alla camorra - Antonio Maria Mira]
Testo a cura di Gaia Barbarino (Orizzonti Politici) e Andrea Jiang (Legalità in Movimento)



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