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Colpire le mafie al cuore: la confisca dei beni come arma contro il crimine organizzato

Erano le 09:20 del 30 Aprile 1982, anno delle più efferate stragi di Mafia, quando il deputato comunista Pio La Torre si trovava a bordo di una Fiat 131 guidata dall’attivista Rosario di Salvo per raggiungere la sede palermitana del PCI. La macchina si trovava in piazza Generale Turba a Palermo, nel momento in cui le si affiancarono due moto di grossa cilindrata: alcuni uomini mascherati con il casco e armati di pistole e mitragliette spararono decine di colpi contro i due. La Torre morì all’istante mentre Di Salvo ebbe il tempo di estrarre la pistola e sparare alcuni colpi in un disperato tentativo di difesa.

Il deputato La Torre intuì, prima di chiunque altro, che per colpire la criminalità organizzata non bastavano più solo le manette, bensì serviva anche, e soprattutto, la confisca di ville e auto di lusso, aziende e terreni. Elementi che un tempo rappresentavano il simbolo del potere mafioso e che oggi, grazie all’intervento dello Stato e alla restituzione di questi alla società civile, possono diventare scuole, centri culturali o cooperative sociali, segnando una concreta ed evidente sconfitta di tutto ciò che la mafia rappresenta. 

Dopo 43 anni analizziamo insieme se questa strategia si è rivelata efficace e osserviamo quali ostacoli si frappongono tra la legge e la sua applicazione concreta.

To hit the crime where it hurts

La Torre aveva compreso che la mafia stava modificando i suoi orientamenti economici e puntando sempre più al profitto, come espressione di potere e controllo. Non andava quindi colpita “solo” l’associazione mafiosa in sé, ma il suo farsi mafia imprenditrice. Il legislatore italiano ha posto, quindi, attenzione alla confisca dei beni, che costituivano una parte dell’impero economico della mafia, nella lotta alla criminalità organizzata che da anni persiste nel Bel Paese. Questo processo risulta essere estremamente importante perché non solo sottrae risorse economiche fondamentali per la sussistenza delle organizzazioni criminali, indebolendo il potere e l’influenza, ma sancisce anche una vittoria simbolica nella battaglia per la legalità. Il patrimonio di beni materiali e immateriali confiscati alle varie organizzazioni criminali cresce di anno in anno, sia in numero che in valore. La CGIA di Mestre stima che il volume d’affari annuo delle mafie in Italia si aggiri attorno ai 40 miliardi di euro l’anno, una cifra notevole che varrebbe praticamente il 2% del PIL nazionale. Queste organizzazioni si avvalgono di ingenti capitali derivanti da traffici illeciti (droga, armi, estorsioni, appalti truccati), come più volte affermato dalla DIA. Capitali che per poter essere utilizzati devono venir “ripuliti”, riciclandoli nell’economia legale, o utilizzandoli come strumento di potere, per infiltrarsi nella politica e nelle istituzioni, condizionando il processo di policy making. Inoltre, le organizzazioni mafiose posseggono numerosi beni mobili e immobili, utilizzati per la commissione di reati, e partecipazioni in aziende, attraverso cui riciclano il denaro derivante dalle attività illecite. Colpirne il patrimonio significa minare la loro capacità di corrompere, investire e reclutare nuovi affiliati, inoltre riduce la loro influenza su amministrazioni locali e nazionali.

La legislazione in materia

L’Italia nel tempo si è dotata di un sistema complesso in tema di legislazione antimafia e gestione del sequestro e della confisca di beni alla criminalità organizzata. Un primo intervento legislativo in materia fu quello elaborato dal deputato La Torre, coadiuvato tra gli altri anche dai giudici antimafia Falcone e Borsellino e dell’allora ministro dell’Interno Rognoni. Questo intervento si concluse nel 1982 con l’emanazione della Legge Rognoni-La Torre, postuma all’attentato al deputato comunista,, la quale aggiunse al codice penale l’articolo 416_bis alla rubrica “Associazione di tipo mafioso”. Nel marzo 1980, a soli due mesi dall‘assassinio di Piersanti Mattarella, La Torre presentò una proposta di legge intesa a formalizzare giuridicamente l’esistenza della mafia come associazione segreta centralizzata e verticistica e ad introdurre misure di carattere patrimoniale per aggredire le ricchezze mafiose. In particolare, il comma 7 dell’Art. 1 della suddetta legge stabiliva che “nei confronti del condannato è sempre obbligatoria la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono il prezzo, il prodotto, il profitto o che ne costituiscono l’impiego”. La legge Rognoni-La Torre introduceva, quindi, accanto alla confisca “classica” ex art. 240 c.p., una confisca speciale obbligatoria (e non più solo facoltativa) dei beni del condannato di associazione di tipo mafioso. Nel corso degli anni, furono introdotte nuove ipotesi speciali di confisca, rendendo questo attacco al cuore del potere mafioso ancora più efficace. Tra queste, la confisca allargata ex art 240_bis c.p., per la quale non è richiesto che ci sia un nesso causale tra reato e beni, ma che si applica a tutti i beni che non vengano giustificati dal condannato, e la confisca per equivalente (art. 322_ter c.p.) che intendeva neutralizzare ogni vantaggio economico del reato, anche qualora nel concreto esso non fosse reperibile.

Successivamente, per completare il percorso immaginato da Pio La Torre, l’associazione Libera contro le mafie, fondata da Don Luigi Ciotti, spinse per l’approvazione della Legge 7 marzo 1996, n.109, riguardante le Disposizioni in materia di gestione e destinazione di beni sequestrati o confiscati. Questa legge delineò l’iter di gestione dei beni confiscati, ai fini del loro riutilizzo per finalità sociali. L’idea era di restituire in maniera diretta e tangibile alla comunità ciò che la mafia le aveva sottratto, facendo diventare questi luoghi un simbolo di legalità e impegno collettivo, riaffermandone il valore sociale laddove le mafie avevano imposto la loro presenza. 

Ulteriori tappe di questo percorso sono state: nel 2010 l’introduzione di un ente specifico responsabile della gestione dei beni, dell’amministrazione e dell’assegnazione dei beni confiscati e devoluti allo Stato, ovvero l’Agenzia Nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata (ANBSC); nel 2011 l’accorpamento nel  Codice Antimafia di tutte le leggi esistenti sul contrasto alla criminalità organizzata e sulla regolamentazione degli strumenti di contrasto alla mafia, tra i quali il sequestro e la confisca di prevenzione (riformato nel 2017); nel 2018 il c.d. “Decreto Sicurezza“, che ha in parte snellito le procedure di gestione e destinazione dei beni confiscati. Più recentemente, sono intervenuti il Regolamento UE 2018/1805, relativo al riconoscimento reciproco dei provvedimenti di congelamento e di confisca in ambito europeo, e la Direttiva UE 2024/1260 che rappresenta un progresso nell’armonizzazione delle normative dei Paesi UE in questo campo.

Confisca penale e confisca di prevenzione 

Nell’ordinamento italiano sono previste diverse modalità con cui rompere il vincolo di potere tra un mafioso e i suoi beni. Il sistema di aggressione patrimoniale si scompone in due strumenti principali: le misure patrimoniali penalistiche e le misure patrimoniali di prevenzione.

Le misure patrimoniali penalistiche si caratterizzano per il fatto che esse non si possono applicare basandosi sul “solo” sospetto, ma richiedono un accertamento di responsabilità penale, formatosi a seguito di un procedimento penale. Le misure di prevenzione sono invece misure dirette alla prevenzione dei reati, che intervengono quindi “ante o praeter delictum” (prima o eccetto il delitto), in presenza di requisiti oggettivi e soggettivi riguardanti la pericolosità sociale del soggetto. Queste misure dunque non presuppongono la sussistenza di un reato accertato. Esse costituiscono il cosiddetto terzo binario nelle misure di contrasto alla criminalità organizzata, improntato alla preservazione della pace sociale tramite l’inflizione di misure pur sempre punitive. Si tratta di due strumenti, a cui non si ricorre alternativamente ma in modo complementare; è possibile infatti che nel contempo si innestino procedimenti penali che vadano poi ad accertare la responsabilità penale e fondare la richiesta di sequestro e confisca contenute nel Codice Penale.

Dal punto di vista penalistico abbiamo in primis il sequestro preventivo (art. 321 c.p.p.), che vuole evitare che la libera disponibilità di quel bene aggravi o porti avanti le conseguenze del reato, o ne permetta altri. Il sequestro è finalizzato alla confisca, pur potendo in seguito anche non realizzarsi. La confisca è prevista dall’ordinamento penale in molteplici tipologie. Si ha la confisca penale classica disciplinata dall’art. 240 c.p. che è una misura patrimoniale che può essere applicata nel processo penale e si distingue in facoltativa, ed obbligatoria, 

Oltre ad altre tipologie “speciali”, che sono state introdotte nel tempo, tra cui la sopracitata confisca speciale obbligatoria, prevista proprio dall’art. 416_bis c.p., introdotto dalla Legge Rognoni-La Torre, che consegue alla condanna per associazione mafiosa, cosí come anche le ipotesi di confisca allargata (art 240_bis C.p.) e di confisca per equivalente (art 322_ter C.p.). 

Invece, all’art. 20 del Codice Antimafia è disciplinato il sequestro di prevenzione che consiste in un “congelamento” dei beni del soggetto indiziato di appartenere ad una associazione mafiosa, pur non essendoci stata alcuna condanna. I beni vengono sottratti quindi al “proprietario”, che non può più accedervi o utilizzarli, in ragione dell’interesse pubblico di maggiore importanza. La legge indica in modo chiaro quelli che sono i requisiti che è necessario riscontrare per poter applicare la misura di prevenzione patrimoniale, che sono: la pericolositá (pur senza condanna) del soggetto a cui si riferisce, la disponibilità di quel bene da parte del destinatario della misura (diretta o indiretta che sia, per contrastare il fenomeno dei cd. prestanomi) e la sporporzione del valore del bene rispetto al reddito dichiarato dal soggetto, che non é in grado di dimostrarne la provenienza lecita. 

Il sequestro è anche in questo caso orientato alla confisca. La confisca di prevenzione è disciplinata dall’art. 24 e 45 del Codice Antimafia e implica la devoluzione allo Stato dei beni appartenenti al proposto, qualora dei beni sequestrati “non sia stata dimostrata la legittima provenienza”. Successivamente a questa devoluzione inizierà il percorso, che dopo aver privato la mafia del suo bene, mira a restituire alla società ciò di cui era stata privata, rendendoli in questa nuova fase dei beni collettivi, emblema di legalità. In questo modo il bene si impregna col suo riutilizzo di un nuovo valore sociale. È così che si interrompe, proprio come Pio La Torre lo aveva immaginato, quella situazione di potere, controllo e omertà a cui i mafiosi aspirano tanto.

Il Riutilizzo Sociale 

Le misure di prevenzione rappresentano solo uno strumento nell’ambito del più complesso percorso di rientro nella legalità, che riguarda tutto ciò che è riconducibile a una presenza mafiosa. La legge popolare 109/1996 (cd. Legge per il riuso dei beni confiscati), ora confluita nel Codice Antimafia, si fondava sulla consapevolezza che il contrasto giuridico e giudiziario, rappresentato dalla confisca dei beni, non fosse da solo sufficiente. La legge ha completato il percorso immaginato da Pio La Torre, introducendo la previsione di un riutilizzo sociale dei beni confiscati. Si prevede infatti una restituzione diretta e tangibile alla comunità, di quanto accumulato dalle mafie, mostrando la superiorità della legalità stessa. Questo avviene anche tramite l’ANBSC, che si occupa di condurre questi beni attraverso il percorso di riutilizzo, monitorando i beni sul territorio nazionale dal sequestro per poi giungere alla destinazione di essi dopo la confisca definitiva e alla loro assegnazione a enti pubblici o associazioni del terzo settore, che li possano gestire e riutilizzare per fini sociali. Ma per poter trasformare un bene mafioso confiscato in un bene che abbia un’utilità sociale di ampio respiro, la normativa ha dovuto costruire un percorso che permettesse di porre basi solide.

Dove siamo arrivati?

Ció che é opportuno osservare, dopo aver esaminato alcuni degli strumenti di cui l’ordinamento si é dotato per contrastare il fenomeno mafioso, è che anche i migliori strumenti giuridici e tecnici sono insufficienti se non sono supportati attivamente dai diversi attori che devono prendere parte a questo percorso, cogliendo il valore che esso produce. È proprio il contributo della collettività la linfa vitale che permette a queste realtà di resistere alle ostilità e di sconfessare la cultura mafiosa. Sono le sinergie che vanno incentivate, tra forze della società civile, ma soprattutto tra rappresentanti delle istituzioni, in modo che si coordinino con questi percorsi legislativi fornendo continuo sostegno, il quale, purtroppo, spesso va a scemare dopo un primo momento di entusiasmo, favorendo l’isolamento di queste realtà e quindi la loro esposizione a ritorsioni da parte dei precedenti proprietari. È proprio il fare rete che permette ai nuovi enti proprietari dei beni confiscati di consolidarsi nel territorio. Il sostegno deve venire in primis dalle istituzioni, le quali dorerebbero facilitare e avvantaggiare questi progetti proprio per il valore sociale e culturale che apportano. 

*Immagine di copertina: [Uno striscione comparso a Castel Volturno nel 2012 in occasione della confisca di un bene alla camorra - Antonio Maria Mira]

Testo a cura di Riccardo Bisato (Orizzonti Politici) e Giulia Chiodini (Legalità in Movimento)

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