Con l’annuncio di pesanti dazi contro più di 100 paesi, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha aperto quella che è già stata definita una «guerra commerciale globale». Dietro la retorica protezionista, si profila il rischio di indebolire le economie di numerosi partner e di ridisegnare gli equilibri del commercio internazionale. Se la Cina è al momento il principale bersaglio delle misure americane, anche l’UE è finita nel mirino, con ripercussioni significative sull’interscambio transatlantico.
Un po’ di ordine: cosa sta succedendo e quali sono i dazi in vigore
Sabato 5 Aprile e Mercoledì 9 Aprile, a seguito di svariati annunci del presidente degli Stati Uniti Donald Trump, prima fatti in campagna elettorale, e poi nelle scorse settimane a suon di “Liberation Day”, sono entrati in vigore i dazi americani verso il resto del mondo. I secondi, tuttavia, sono rimasti in vigore di fatto solo per un giorno: Trump ha infatti deciso di sospenderli per 90 giorni, fino a luglio, in seguito agli effetti disastrosi sulle borse di tutto il mondo. L’unica eccezione rimane la Cina, per cui le tariffe, inizialmente pari al 125% e poi aumentate al 145%, sono ancora in vigore.
I dazi attualmente in vigore per l’Unione europea, dunque, sono quelli del 25% già imposti negli scorsi mesi su acciaio e alluminio (e prodotti derivati), automobili importate e un dazio base del 10 per cento (quello appunto entrato in vigore il 5 aprile). Le eccezioni in termini di prodotti, diffusi dal governo degli Stati Uniti, sono petrolio greggio e prodotti petroliferi, farmaci, uranio, titanio e semiconduttori. Ciò non significa che tuttavia questi prodotti saranno totalmente esenti da dazi: sembra infatti che il governo statunitense stia valutando altri dazi più specifici.
La seconda ondata, invece, quella che è stata poi ritirata in meno di un giorno ed è ora sospesa, consiste nei cosiddetti “dazi reciproci”. Questi dazi, infatti, sono chiamati così perché, secondo il presidente Trump, sarebbero andati a compensare la penalizzazione che gli Stati Uniti avrebbero nel commercio con i Paesi terzi. Di conseguenza, essi hanno importi diversi a seconda di questo rapporto: si va da un minimo del 10%, al 20% contro l’Unione europea, fino a un massimo del 50% contro il Lesotho, e si applicano a tutte le merci importate da questi Paesi, senza distinzioni. Va detto, tuttavia, che la formula utilizzata dagli economisti americani per calcolare le tariffe è piuttosto contestato. I dazi, infatti, sono stati ottenuti dividendo il deficit commerciale verso un paese (e cioè la differenza negativa tra quanto gli Stati Uniti esportano e quanto importano), per il totale delle importazioni dei prodotti di quel Paese. Questo valore viene poi diviso per due, in modo da essere “scontato” in un segno di “gentilezza” da parte degli Stati Uniti verso il resto del mondo. Il problema della formula sta nel fatto che, seppur vero che gli Stati Uniti soffrono di un deficit commerciale nei confronti degli altri Stati, non vuol dire che ciò sia perchè gli altri Stati mettono in atto delle pratiche commerciali sleali, ma ha a che fare con altri fattori, ben più complessi da gestire, come le preferenze dei consumatori, la capacità delle imprese di produrre merci a sufficienza, ecc. Inoltre, nella formula si tiene conto solo dei beni, ma non dei servizi, su cui invece gli Stati Uniti hanno un surplus commerciale nei confronti degli altri Paesi (cioè, esportano di più di quanto importino). Ovviamente, non calcolarlo è un vantaggio per gli Stati Uniti, perché permette di mantenere il dazio più alto.
L’idea di deficit commerciale non è una novità per Trump: per il presidente statunitense, infatti, è sempre stato un sinonimo di debolezza degli Stati Uniti, che comprano più dagli altri Paesi di quanto gli altri Paesi comprino da loro. Perciò, già nel primo mandato presidenziale, dal 2017 al 2021, Trump aveva adottato una politica commerciale fortemente protezionistica, sotto lo slogan di “America first”, imponendo dazi nei confronti degli altri Paesi. Nel 2018, per esempio, l’amministrazione Trump aveva imposto dazi del 25% sulle importazioni di acciaio e del 10% su quelle di alluminio, colpendo non solo la Cina ma anche alleati storici come l’Unione Europea. Nel 2019, aveva poi imposto dazi del 10% sui velivoli Airbus e aumenti su prodotti come vino, formaggi e olio d’oliva.
Gli effetti immediati dei dazi
Questa decisione ha avuto grosse conseguenze economiche: dopo le grosse perdite già subite a causa degli annunci, a seguito dell’entrata in vigore le borse sono crollate in tutto il mondo. A risentirne, sono state peraltro proprio le borse statunitensi, che non avevano visto perdite così fin dalla pandemia di Covid-19. Lo stesso valore del dollaro si è ridotto, mentre il rendimento dei titoli di Stato americani ha iniziato ad aumentare, segnalando la perdita di fiducia nei confronti dell’economia americana. In Asia, i mercati hanno visto le peggiori perdite dalla crisi finanziaria del 2008. In Europa, dove i cali sono stati generalizzati, la borsa peggiore è stata quella di Milano, che è arrivata a perdere il 6,5% del proprio valore. In alcuni momenti, la borsa è arrivata a perdere più di quanto avesse perso nella giornata dell’attacco alle Torri Gemelle, nell’11 settembre 2001.
Le borse hanno reagito così perché gli investitori hanno iniziato a vendere in massa i titoli delle aziende più esposte al commercio con gli Stati Uniti e di chi invece rischia di essere più impattato da una eventuale recessione, cioè le banche. Non a caso, a Piazza Affari i settori più colpiti sono stati quelli relativi alle auto, come Stellantis, all’industria, e le banche stesse. Nel settore delle materie prime, invece, il petrolio è arrivato a scendere di circa il 7%, cosa che succede solitamente quando gli investitori temono una possibile recessione, in cui le materie prime sarebbero usate meno e quindi i profitti sarebbero peggiori.
Questi effetti immediati improvvisi sull’economia sembrano essere una delle cause per cui Trump ha deciso, all’improvviso, di sospendere tutti i dazi reciproci. Il presidente ha infatti dichiarato che “la gente si stava spaventando un po’ troppo” e “stava diventando troppo agitata”. In effetti, subito dopo l’annuncio della sospensione dei dazi, le borse hanno iniziato a risalire e giovedì 10 aprile hanno aperto con un rialzo. L’effetto migliore si è visto proprio sulle borse statunitensi, che per via del fuso orario erano ancora aperte mercoledì 9 aprile – quando c’è stato l’annuncio di sospensione dei dazi – e che hanno chiuso in grande rialzo, segnando, per alcuni indici, uno dei migliori rialzi nella stessa giornata dal secondo dopoguerra. Nonostante questo, gli indici, i titoli di stato e il valore del dollaro non sono ancora tornati ai livelli pre-annunci delle tariffe da parte di Trump. Di fatto, ciò simboleggia che gli investitori continuano a non fidarsi dell’economia statunitense e soprattutto delle scelte di Trump.
Un passo indietro: cosa sono i dazi, chi li paga e chi ci guadagna
Presentati i fatti e cosa sta succedendo, è necessario chiarire bene cosa siano i dazi e come funzionano concretamente, per capire il loro impatto sull’economia reale.
I dazi sono di fatto un’imposta che si applica sulle merci importate da un Paese terzo. Concretamente, a pagare questa imposta è chi importa la merce dall’estero. Per esempio, se un grossista statunitense in questo momento volesse importare una merce dall’Unione europea che vale 100.000 dollari, dovrebbe pagare non solo questi 100.000 dollari, ma aggiungere il 10% in più (visti i dazi del 5 aprile). Il grossista pagherà quindi alla dogana statunitense, al momento del ritiro della merce, 110.000 dollari, ovvero 10.000 dollari in più di quello che avrebbe pagato senza dazio. Ovviamente, il grossista dovrà scaricare il costo aggiuntivo altrove, vendendo a un prezzo più elevato di quello a cui avrebbe venduto la merce senza dazi. Di conseguenza, a pagare i dazi sono i consumatori finali della merce, che la pagheranno ad un prezzo più elevato, e non le imprese estere, come talvolta erroneamente si pensa. Questo aumento generale dei prezzi, infine, provoca una crescita dell’inflazione, che penalizza soprattutto i cittadini meno abbienti. L’effetto sui cittadini è dunque sicuramente negativo.
Fin qui il dazio sembrerebbe quindi una scelta controproducente, che di fatto penalizza i cittadini del proprio Paese – e, in effetti, l’Organizzazione Mondiale del Commercio, a cui anche gli Stati Uniti aderiscono, ha cercato di portare ad una riduzione dei dazi nel lungo periodo. La logica tuttavia è che i consumatori, vedendosi imporre un prezzo più alto, decideranno di comprare altri prodotti che costino meno. Considerato che in questo momento tutti i Paesi terzi subiscono un dazio di almeno 10% nei confronti degli Stati Uniti, gli unici prodotti che effettivamente potranno costare meno sono quelli statunitensi. In questo modo, quindi, Trump spera di avvantaggiare le imprese statunitensi e di ridurre il deficit commerciale verso i Paesi terzi. Tuttavia, al momento le imprese subiranno solo un rincaro della merce o sosterranno a loro volta costi più alti senza farli ricadere sul consumatore. Il loro guadagno, quindi, è dubbio, anche perchè nella scelta di ciò che comprano i consumatori il prezzo non è l’unica variabile: i cittadini statunitensi potrebbero continuare a comprare in ogni caso merce importata perché la preferiscono a quella statunitense, ad esempio. Un altro scenario è che le imprese nazionali, a fronte di un aumento della domanda interna, non abbiano sufficienti risorse per farne fronte (ad esempio in termini di personale o macchinari). In questo caso, dovranno fare degli investimenti, che verranno ripagati però solo nel lungo periodo: di conseguenza, nel breve scaricheranno il prezzo sui consumatori, che vedranno un rincaro generale dei prezzi anche sulle merci nazionali.
Chi invece guadagnerà sicuramente dai dazi è il governo statunitense, che incassa direttamente l’imposta alla dogana. Infatti, quei 10.000 dollari in più, nell’esempio precedente, vanno direttamente allo Stato. Durante il primo mandato di Trump, ad esempio, le entrate doganali trimestrali raddoppiarono, passando da 39 miliardi di dollari del primo trimestre del 2017 a 81 miliardi nel primo trimestre del 2021.
Le relazioni commerciali UE–USA: numeri e settori chiave
Con un valore complessivo di oltre 1.600 miliardi di euro nel 2023, le relazioni commerciali tra Unione Europea e Stati Uniti rappresentano una delle partnership economiche più importanti al mondo, comprendendo quasi il 30% degli scambi mondiali di beni e servizi e il 43% del PIL mondiale. Una tale interdipendenza rende qualsiasi azione protezionistica potenzialmente destabilizzante per entrambe le economie. In particolare, i dati Eurostat confermano come gli Stati Uniti siano stati, nel 2024 il principale partner commerciale dell’UE per le esportazioni (il 20,6% dell’export totale) e il secondo partner (dopo la Cina) per le importazioni (il 21,3% dei beni importati nell’UE proviene dalla Cina, seguiti dagli Stati Uniti per il 13,7%).
Le prime 5 categorie di prodotti più esportate nel 2024 rappresentano la metà (49,5%) delle esportazioni totali verso gli Stati Uniti secondo la Classificazione Standard del Commercio Internazionale (SITC). Tra questi, medicinali e prodotti farmaceutici (22,5%), veicoli stradali (9,6%), macchinari e attrezzature industriali generali (6,4%), macchinari elettrici, apparecchi e parti elettriche (6,0%) e macchinari specializzati per industrie particolari (5,0%). Per quanto riguarda i Paesi maggiormente coinvolti negli scambi commerciali con gli USA, nel 2024 i tre maggiori importatori nell’UE sono Germania (69 miliardi di euro), Paesi Bassi (68 miliardi di euro) e Francia (44 miliardi di euro). Sempre secondo i dati Eurostat, l’Italia è il quinto importatore in Europa e il terzo esportatore verso gli Stati Uniti, raggiungendo la cifra record di 117 miliardi nel 2022, diventando il diciannovesimo maggiore esportatore in Usa al mondo.
Guardando i numeri, il legame economico tra Unione Europea e Stati Uniti appare solido, anche se è proprio in questa profondità che si nasconde una fragilità strutturale. Il disavanzo commerciale europeo continua ad allargarsi, mentre interi settori strategici, dall’energia alla tecnologia, dipendono in modo crescente dalle dinamiche americane. In questo contesto, basta poco per incrinare le certezze: un tweet presidenziale, una conferenza stampa inattesa, un ordine esecutivo firmato sull’onda dell’emergenza politica interna, e quell’equilibrio transatlantico rischia di trasformarsi in una pericolosa altalena geopolitica..
Gli obiettivi economici e politici di Trump
Fin qui quindi rimane difficile comprendere la decisione di Donald Trump di imporre dei dazi, considerato il loro effetto negativo sui propri cittadini e dubbio sulle proprie imprese, e lo stretto legame fra gli Stati Uniti e l’Unione europea. Perché quindi Trump ha comunque deciso di far entrare in vigore i dazi? E perché ha deciso di sospenderli subito dopo?
La prima categoria di obiettivi di Trump per l’imposizione dei dazi sono economici. Ad esempio, uno che è già stato ricordato è quello di ridurre il deficit commerciale con i Paesi terzi. Un altro obiettivo è quello di rivitalizzare l’industria americana, non solo proteggendo le imprese internamente, ma anche spingendo le imprese americane che, per ridurre i costi di produzione, si erano delocalizzate all’estero, a tornare negli Stati Uniti. Infine, Trump vorrebbe ripianare il deficit federale americano, che ad oggi ammonta a 1.800 miliardi di dollari. Secondo Trump, infatti, i dazi riuscirebbero a coprire il deficit e anche a rifinanziare una manovra di taglio delle tasse, che arriverebbe a scadenza quest’anno e che avrebbe dunque bisogno di nuovi fondi. Va detto, però, che molti economisti si sono detti scettici riguardo alla realizzazione di questi obiettivi. Sulla possibilità di coprire il deficit federale, ad esempio, sono gli stessi dati a contraddire Trump: uno studio di ISPI infatti mostra come, nei prossimi dodici mesi, gli Stati Uniti potrebbero raccogliere 280 miliardi di dollari in dazi (cifra che ora va ridotta, considerando che i dazi reciproci sono stati sospesi). Dunque, questa cifra non riuscirebbe mai a coprire i 1.800 miliardi sopra citati di deficit. Anzi, se Trump volesse davvero rifinanziare il taglio delle tasse, non solo ciò non sarebbe possibile con i dazi, ma anzi, ciò provocherebbe un aumento del deficit stesso, fino a 2.000 miliardi.
Se economicamente, dunque, gli obiettivi prefissati da Trump non sembra saranno raggiunti, potrebbero però riuscirci gli obiettivi politici. In effetti, Trump stesso ha dichiarato che i leader stranieri lo stavano chiamando “morendo dalla voglia di trovare un accordo” e la portavoce della Casa Bianca, Bianca Leavitt ha parlato della cosiddetta “art of the deal”, ovvero l’arte di fare affari. E’ questo il motivo che la Casa Bianca sta in effetti spingendo per non far apparire la sospensione come un dietrofront nella decisione di Trump di imporre i dazi, che altrimenti sarebbe semplicemente un errore. Invece, in quest’ottica, i dazi vengono usati come un mezzo negoziale: gli Stati Uniti impongono dei dazi, i Paesi colpiti chiedono di ridurli o toglierli, e in cambio devono offrire qualcosa. Bisognerà vedere se effettivamente ciò avverrà in questi mesi, o se Trump imporrà di nuovo i dazi reciproci, come da lui annunciato, a luglio.
La risposta dell’Europa (e dell’Italia) ai dazi di Trump
La risposta dell’UE alla furia tariffaria di Donald Trump è ancora in fase di negoziazione. Nonostante le ingenti conseguenze per aziende e consumatori, l’Unione europea è tutt’altro che la vittima più colpita dai dazi che l’America ha implementato a partire dal 9 aprile: l’aliquota dell’UE è ora fissata al 10%, ben al di sotto della Cina o del Vietnam. Nonostante ciò, il crollo dei mercati azionari mondiali e le pesanti contro-tariffe della Cina potrebbero aver già offerto a Trump il risultato politico desiderato.
A differenza degli Stati Uniti, l’UE continua però a beneficiare di un accesso stabile ai mercati internazionali. Questa continuità è una risorsa preziosa: le imprese europee possono ancora reindirizzare risorse e scambi verso altre aree – dall’ASEAN all’America Latina – limitando i danni. Come sottolinea Álvaro Muñoz, CEO del gruppo spagnolo AMFRESH, il vero gioco oggi è “riassegnare risorse e mercati”. La burocrazia europea, spesso accusata di lentezza, si rivela ora un fattore di stabilità: un meccanismo prevedibile in un mondo sempre più dominato dall’imprevedibilità.
Sul fronte politico, la Commissione ha adottato un profilo istituzionalmente solido: rigetto delle misure unilaterali, appello al rispetto del diritto internazionale e apertura alla trattativa. Già a Marzo di quest’anno, in conseguenza ai primi dazi sulle importazioni di acciaio e alluminio nell’UE, la Commissione si è espressa, ritenendole “ingiustificate, dirompenti per il commercio transatlantico e dannose per le imprese e i consumatori”. Di conseguenza, a partire dal 1° aprile 2025, l’UE ha riattivato i dazi sospesi, colpendo una serie di prodotti statunitensi (tabacco, tessili, articoli in ferro e acciaio) con tariffe tra il 10% e il 25%. Una seconda ondata di ritorsioni, prevista per il 15 aprile, estenderà le misure a ulteriori 18 miliardi di euro di merci USA.
Lo scorso 7 aprile, durante una conferenza stampa con il premier norvegese Jonas Gahr Støre, la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha rilanciato una proposta che pare aperta al confronto: l’eliminazione reciproca dei dazi su tutti i beni industriali, secondo il principio del “zero per zero”.
Ma mentre Bruxelles tende la mano al dialogo, Trump ha invece chiesto maggiori importazioni europee di energia americana e un allentamento delle normative europee, condizioni difficilmente accettabili da Bruxelles che ha nel contempo preparato un piano di difesa. Oltre al Regolamento 2021/167, già usato per le ritorsioni tariffarie, l’arma più potente potrebbe essere l’Anti-Coercion Instrument (ACI), entrato in vigore nel 2023. Pensato inizialmente per contenere la pressione economica della Cina, l’ACI consente all’UE di reagire a misure coercitive con un ampio ventaglio di contromisure: da tariffe mirate all’esclusione da appalti pubblici, fino a restrizioni su servizi, proprietà intellettuale e finanza. E soprattutto, può essere attivato con una maggioranza qualificata, aggirando l’unanimità spesso paralizzante tra i 27 Stati membri.
Il commissario al Commercio Maroš Šefčovič ha ulteriormente sottolineato il divario con Washington: “l’Unione europea agirà nello stesso modo in cui gli Stati Uniti curano i propri interessi: proteggeremo sempre le aziende, i lavoratori e i consumatori europei da pressioni ingiustificate”. Šefčovič ha poi ribadito l’importanza di stabilire regole condivise su commercio digitale e dati con partner come la Corea del Sud (con cui l’UE ha un accordo in vigore dal 2011 e scambi record nel 2022 (132 miliardi di euro) e la Thailandia.
Ma anche i leader nazionali hanno fatto sentire la propria voce. Macron ha dichiarato che “tutti gli strumenti sono sul tavolo”, mentre Pedro Sánchez ha ribadito l’intenzione di rispondere con “proporzionalità, unità e forza”. Giorgia Meloni, intanto, prepara un viaggio a Washington per portare un messaggio europeo condiviso, anche se il rischio è che venga percepita come voce nazionale, più che comunitaria. In vista dell’incontro alla Casa Bianca con Donald Trump il 17 aprile, la presidente del Consiglio prepara le sue mosse su due tavoli: quello della diplomazia internazionale e quello della politica economica interna. Al centro della strategia italiana c’è l’azzerare i dazi bilaterali sui beni industriali, rilanciando il principio del “zero per zero”.
Una sfida parallela pare quindi essere quella di mantenere l’unità politica. La strategia di Trump, almeno in apparenza, non ha prodotto divisioni evidenti. Trattando l’UE come un blocco unico, cosa che è legalmente, ha evitato di alimentare rivalità interne. Ma sotto la superficie, le tensioni restano. La Francia invita le sue imprese a sospendere gli investimenti negli USA, suscitando malumori, mentre i funzionari tedeschi temono che le imprese possano fare pressioni per ottenere favori a Washington, minando la risposta collettiva dell’UE. Il nodo non è solo politico, ma anche giuridico: mentre le tariffe sono competenza della Commissione, misure più incisive richiedono l’approvazione degli Stati membri, e alcune leve, come la tassazione delle big tech, restano in mano ai singoli governi. Il coordinamento europeo si muove quindi tra limiti istituzionali e interessi nazionali.
Scenari futuri
In conclusione, le nuove tariffe imposte da Donald Trump rischiano di aprire un capitolo turbolento nel commercio globale. Secondo il Fondo Monetario Internazionale (FMI), la guerra commerciale innescata da Washington danneggerà non solo le esportazioni ma anche gli investimenti e il commercio nella maggior parte delle economie avanzate. La Cina potrebbe mancare l’obiettivo di crescita del 5% entro il 2025, mentre la Germania è a rischio recessione. Il Regno Unito, pur relativamente protetto, vedrà comunque un impatto sul PIL pari a -0,1 punti percentuali quest’anno, con costi di finanziamento ancora alti e una fiducia dei consumatori in calo. Sul fronte monetario invece, si prevede che le banche centrali europee e britanniche inizieranno a tagliare i tassi di interesse per sostenere la crescita, mentre la Federal Reserve resta in attesa, ma potrebbe intervenire se l’inflazione, attualmente al 2,8%, dovesse salire verso il 4,5%, come previsto da alcune stime.
L’approccio dell’amministrazione Trump conferma una tendenza ormai consolidata: l’uso delle tariffe come leva negoziale più che come misura permanente. Spesso, infatti, le restrizioni vengono imposte per poi essere sospese una volta avviate trattative con i Paesi colpiti, rendendo il quadro altamente instabile. In questo contesto, l’evoluzione delle misure tariffarie resta dinamica e imprevedibile, e richiede un monitoraggio costante da parte di governi, imprese e operatori economici per non perdere di vista emendamenti o sospensioni che possono modificare rapidamente lo scenario.
Per l’Unione Europea, la partita resta aperta: la scelta finora è stata quella di mantenere una linea ferma, ma senza forzare lo scontro. Più che una semplice reazione ai dazi, potrebbe trattarsi di un passaggio chiave per capire se l’UE è davvero in grado di muoversi con coerenza e autonomia in uno scenario internazionale sempre più complesso, proteggendo i propri interessi con strumenti credibili e, soprattutto, con una direzione politica chiara e condivisa.
Articolo a cura di Carioni Miriana e Landi Iris





