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La regolamentazione della prostituzione tutela davvero le lavoratrici?

Tempo di lettura stimato: 6 min.

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La prostituzione si presenta come tema controverso nella sua regolamentazione, in tangenza con materie delicati quali la tratta degli esseri umani e lo sfruttamento. Non solo la legge ha codificato diversi approcci, ma anche il mondo femminista a riguardo si è spaccato su altrettante posizioni distinte. Si distinguono principalmente il proibizionismo, basato sulla criminalizzazione (del cliente, della prostituta o entrambi), e la legalizzazione, tra cui la neo-regolamentazione, per i diritti dei sex worker. In questo puzzle normativo diventa complesso identificare un approccio completamente efficace, in quanto le dinamiche della realtà difficilmente finiscono per riflettere gli obiettivi della legge.

Prima di entrare nei dettagli di questo panorama – normativo, politico e anche filosofico – frammentato, diamo una definizione utile e precisa di prostituzione. Rifacendoci alla sociologa Giulia Garofalo Geymonat, la prostituzione, o sex work, è un “termine ombrello”, “che comprende un ampio spettro di pratiche che riguardano la creazione di esperienza sessuale per altri in cambio di un’esplicita remunerazione”. 

Criminalizzare il cliente: il caso della Svezia

Nel libro “Il contratto sessuale”, la teorica politica femminista Carole Pateman afferma che “nella prostituzione, l’oggetto del contratto è il corpo della donna, e l’accesso sessuale a quel corpo. Il fatto che sul mercato siano in vendita corpi in quanto tali, somiglia molto alla schiavitù.” Da questa identificazione tra mercato del sesso e sfruttamento parte il modello nordico neo-proibizionista. 

La legge svedese Kvinnofrid (“pace delle donne”) del 1999 criminalizza infatti il cliente (e non il venditore), cioè “chiunque  si  procuri  una  relazione  sessuale  occasionale  dietro compenso”, sposando la tesi del femminismo abolizionista che vede nella prostituzione un rapporto di oppressione patriarcale. La legge ha l’obiettivo di abolire a lungo termine la prostituzione, riducendo la domanda che sta alla base dell’industria ma offrendo al contempo sostegno pubblico ai sex workers. 

Al fine di monitorare l’efficacia della legge Kvinnofrid, nel 2008 la Svezia ha istituito una commissione ad hoc, che ha steso poi un report di sintesi. Lo studio ha evidenziato che nel decennio 1999-2009 la prostituzione di strada in Svezia era dimezzata. Più difficile da controllare diveniva invece la crescente arena su Internet, che nel 1999 non aveva la stessa diffusione. Comunque, nonostante la prostituzione online sia cresciuta anche in Svezia, i dati hanno mostrato che l’aumento è stato minore che nei Paesi limitrofi e quindi il governo svedese ha potuto concludere che la diminuzione del sex work in strada non nascondesse in realtà un semplice spostamento del mercato verso le piattaforme di internet. In altre parole, la legge Kvinnofrid si era rivelata efficace; è stata quindi esportata in Islanda e Norvegia.

Non va però ignorato che difficilmente le e i sex workers ricevono la tutela che spetta loro dalla legge, come emerso dalla ricerca di Amnesty International del 2016. Secondo quanto spiegato da un rappresentante dell’organizzazione per i diritti dei sex worker in Norvegia, difficilmente si chiede aiuto alla polizia per il rischio di essere deportati o sfrattati dal padrone di casa, in quanto perseguibile legalmente per promozione della prostituzione. 

Se si criminalizza anche l’atto di prostituirsi, cadendo nel proibizionismo e non nel neo-proibizionismo, le tutele per le ed i sex workers diventano invece pari a zero. Come evidenziato da Amnesty, ad esempio, in Papua Nuova Guinea, le strette leggi permettono alla polizia di minacciare le persone ed estorcere loro denaro e rendono le prostitute estremamente vulnerabili. Nel 2010 un sondaggio riportato da Amnesty ha infatti rivelato che, nell’arco di sei mesi, il 50 per cento delle persone che svolgevano lavoro sessuale nella capitale Port Moresby era stato stuprato dai clienti o dalla polizia.

La legalizzazione tedesca

Altro modello è invece la cosiddetta regolamentazione o legalizzazione, che cerca di dare uno spazio sociale ed economico al sex work, supportato da diverse frange della filosofia femminista. Non tutti vedono infatti una correlazione tra prostituzione e oppressione o, nel caso, intravedono nella legalizzazione una via per proteggere le ed i sex workers. É comunque da notare che, sulla scorta di Simon Häggström in “Shadow’s Law: The True Story of a Swedish Detective Inspector Fighting Prostitution”anche in Germania, dove la prostituzione è stata legalizzata, “l’80/90% delle donne sono vittime di traffico di esseri umani”. Inoltre, se la depenalizzazione ha l’obiettivo di tutelare i sex workers, nella pratica facilmente fallisce.

Sostenuta da importanti associazioni femministe, tra cui l’italiano Comitato per i Diritti Civili delle Prostitute, la legalizzazione dovrebbe consistere in uno strumento atto sia a contrastare lo sfruttamento, che a tutelare coloro che si prostituiscono volontariamente

La depenalizzazione della prostituzione (adulta e consenziente) in Germania nel 2002, ad esempio, ha portato il riconoscimento del diritto all’assistenza, al trattamento pensionistico e previdenziale anche per i sex workers. Uno studio condotto dal Ministero della Famiglia tedesco cinque anni dopo la legge del 2002 ha però rivelato che il modello non aveva portato a nessun evidente miglioramento della copertura sociale delle prostitute. Tra le donne intervistate, in più, solo l’1% aveva dichiarato di aver firmato un contratto di lavoro. Per comprendere la cifra è necessario considerare che un largo numero di sex workers, migranti o vittime di tratta, si vede persino impossibilitato a registrarsi in quanto sprovvisto di cittadinanza europea. 

Nel 2016 la Germania ha introdotto una legge più severa, che richiede certi standard igienici ai bordelli, proibisce quelli a tassa fissa e le orge e rende obbligatorio l’uso dei preservativi. La riforma ha però nella realtà cambiato ben poco: come riportato dal Welt, delle 200 mila prostitute stimate nel 2018 solo 76 si erano registrate, rendendo difficile salvaguardare le restanti.

L’Italia dopo la legge Merlin

L’Italia rappresenta un diverso tipo di approccio al mercato del sesso, il cosiddetto abolizionismo: la prostituzione (consenziente ed adulta) non è né penalizzata né regolamentata. Come evidenziato dalla sociologa Giulia Garofalo Geymonat, “mentre l’abolizionismo sogna implicitamente un mondo senza prostituzione, esso si preoccupa, nel frattempo, di proteggere le prostitute, di non aggiungere sofferenza nelle loro vite, insomma di non punirle.” Dagli stessi presupposti parte la legge Merlin del 1958, con la quale i “locali di meretricio” sono stati chiusi, ma il sex work è rimasto lecito. Sia la prestazione e il pagamento sono infatti legali e ricadono nella sanzione solo in caso di invito al libertinaggio e offesa al pudore. Rappresentano reato invece le attività collaterali: sfruttamento, favoreggiamento, controllo da parti terze. La definizione molto ampia delle “terze parti” finisce però per disincentivare l’auto-organizzazione e la sindacalizzazione, lasciando i sex workers vulnerabili in una posizione di isolamento e sfruttamento.

Negli anni sono spesso state presentate proposte per regolamentare la prostituzione e reinserire le “case chiuse”. Già nella legislatura precedente erano arrivati ben venti disegni di legge, dei quali nessuno passato. 

Come dichiarato sempre dalla sociologa Garofalo Geymonat, le proposte presentate negli ultimi anni, “riguardano l’introduzione di controlli sanitari obbligatori e di una registrazione obbligatoria, o schedatura, per chi voglia lavorare legalmente, mentre chi lavora in altri modi compirebbe reato.” I sostenitori ribadiscono in particolare gli effetti positivi che la riforma avrebbe nel contrasto alle organizzazioni criminali ed allo sfruttamento, oltre ad una maggiore tutela sia sociale che della salute per i sex workers. “L’idea può apparire rassicurante ad alcuni, ma occorre ricordare che le malattie sessualmente trasmissibili hanno un periodo di incubazione in cui non risultano al test”. Di conseguenza, “come chiarito fra gli altri da Unaids 17, i controlli sanitari obbligatori, oltre a essere una violazione dei diritti fondamentali delle prostitute, sono senz’altro inutili e anche pericolosi perché possono incitare a non usare i preservativi, unico modo per proteggersi dalle malattie”. I controlli sanitari rischierebbero cioè di provocare l’effetto opposto: un test che risultasse negativo potrebbe erroneamente disincentivare l’uso di profilattici, quando in realtà questi contraccettivi proteggono dalle malattie sessualmente trasmissibili che i test durante il periodo di incubazione non rileverebbero. 

Questo articolo è parte di una raccolta sulla prostituzione nel mondo e gli approcci normativi. Articolo precedente: “Così la tratta degli esseri umani alimenta la prostituzione“.

Elena D'Acunto
Napoletana di nascita, milanese d’adozione, americana per 3 mesi. Dopo 5 anni di liceo scientifico, ora studio filosofia alla Statale di Milano. Ho tre passioni: la politica, la musica e le scarpette da arrampicata. Di giorno scrivo per OriPo, di notte mi trasformo in una bimba di Lilli Gruber.

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