Questo articolo fa parte di una serie dedicata a PROMPT (Predictive Research On Misinformation & Propagation Trajectories), un progetto di European Narrative Observatory che utilizza l’Intelligenza Artificiale per contrastare la disinformazione online.
Minaccia alla democrazia
Le democrazie devono fare i conti con una minaccia subdola e potente: la disinformazione. Comunemente nota con il termine “fake news”, la disinformazione è definita come la diffusione di informazioni false e fuorvianti, deliberatamente create e trasmesse con l’intento di ingannare, indurre in errore o provocare danni.
La disinformazione non è una novità, ma nel XXI secolo ha raggiunto un livello mai visto. Con l’avanzamento tecnologico e digitale, oggi identificare l’origine delle fake news è tutt’altro che semplice. Grazie ad Internet e ai social media, ogni utente ha la possibilità di pubblicare contenuti che possono facilmente aggirare i programmi di fact-checking (che sono già stati indeboliti dopo il ritorno di Trump alla Casa Bianca). Anche gli autori di fake news possono essere vari: Stati, attivisti, individui e persino aziende. La recente presa d’assalto dell’intelligenza artificiale generativa (genAI), che ha reso la produzione di contenuti realistici accessibile a tutti, complica ulteriormente l’individuazione di informazioni vere e false.
Nella società della post-verità, la disinformazione è un’arma abituale nell’arsenale comunicativo degli attori politici, che la sfruttano per ottenere voti e sostengo elettorale. Nel caso del referendum per la “Brexit”, l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea, tenutosi nel 2016, i politici britannici hanno fatto ampio ricorso a tecniche di disinformazione per raccogliere consensi. In particolare, i sostenitori della campagna “Leave” hanno diffuso dati e storie manipolate su tematiche come il controllo dei confini e l’economia, al fine di convincere gli elettori a votare per uscire dall’UE.
Fake news all’inglese
L’avversione di una parte dei britannici verso Bruxelles non era una novità. I rapporti sono sempre stati caratterizzati da incertezze e ripensamenti, sin dall’adesione del Regno Unito alla Comunità Economica Europea nel 1973. Anche le fake news non mancavano allora. Già negli anni ‘90 circolavano gli “euromiti”, storie false ed esagerate come quella sulla curva delle banane, secondo cui “i burocrati di Bruxelles” avrebbero “messo fuori legge le banane curve”, che hanno contribuito ad alimentare la retorica politica populista e nazionalista dei sovranisti.
Il Partito Conservatore si è fatto portavoce del sentimento anti-europeista, scagliandosi contro i cosiddetti “diktat di Bruxelles”. I temi principali erano l’eccessiva burocrazia, che, secondo i conservatori, danneggia l’economia britannica, e l’immigrazione.
Nella campagna precedente al referendum, si nota che i temi non sono cambiati. I maggiori esponenti della fazione del Leave, tra cui Boris Johnson, all’epoca del referendum sindaco di Londra, e Nigel Farage, fondatore del Brexit Party, hanno costruito la loro campagna sul denaro britannico nelle casse europee, sugli insostenibili costi dell’energia, e sugli alti tassi di immigrazione. Quest’ultima è stata una delle tematiche su cui più si è creata una narrazione allarmista. In particolare, tra le fake news più ricorrenti vi era quella relativa al fatto che la Turchia sarebbe entrata di lì a poco nell’UE, e che ciò avrebbe spalancato le porte ad un’ondata incontrollata di profughi e di militanti estremisti nel Regno Unito. La notizia era falsa e costruita per fomentare l’odio verso gli immigrati, soprattutto visto che il processo di adesione della Turchia è in stallo da tempo.
Un altro messaggio che ha caratterizzato la campagna Leave era relativo ai 350 milioni di sterline che secondo i sostenitori del Leave il Regno Unito versava all’UE ogni settimana. Non solo la cifra era falsa, ma i conservatori affermavano anche quei soldi avrebbero potuto essere interamente investiti nel sistema sanitario nazionale. Nonostante questa pretesa fosse impossibile e fuorviante, il fatto di strumentalizzare informazioni riguardanti il tema della sanità pubblica era strategico, proprio perché molto sentito dai cittadini.
Online, ma non solo
Le fake news sull’UE sono condivise soprattutto tramite i social media. I gruppi social hanno rappresentato un terreno particolarmente fertile per chatbot, software progettati per simulare una conversazione con un essere umano, e fake news, tanto che la piattaforma Facebook ne ha chiusi diversi. Tra questi rientra il più popolare di tutti, il “Brexit Party – supporters”, che era collegato al sito statunitense Red Pill Factory, produttore di fake news.
Facebook inoltre è stato al centro anche della controversa questione di Cambridge Analytica. L’ex società britannica di big data era stata accusata di aver usato le informazioni riservate di oltre 80 milioni di profili Facebook per influenzare le elezioni sia in Europa che in America. C’era il sospetto che fosse coinvolta anche nella campagna sulla Brexit, ma un’indagine ha poi smentito il diretto legame.
La disinformazione sul referendum per l’uscita non ha risparmiato i media tradizionali. La stampa anglosassone si è spaccata in testate favorevoli al Leave o Remain. Tra i pro-Brexit c’erano i tabloid Daily Express, Sun, e Daily Mail, mentre il Daily Mirror e i quotidiani The Guardian e Financial Times hanno sostenuto la permanenza nell’UE. I due schieramenti hanno fatto leva sull’emotività dei lettori, con i tabloid a favore del Leave che insistevano su sovranità e anti-immigrazione con storie sulla “liberazione” di Londra dai diktat europei. La controparte invece si è concentrata sui temi economici con toni pessimisti sul futuro senza l’Unione. Nonostante non si trattasse di disinformazione in senso stretto, il linguaggio iper-semplificato dei tabloid e la ricerca di analisi fattuali dei giornali ha rinforzato la polarizzazione delle “bolle” cognitive già delineatesi nell’opinione pubblica.
Fermare le fake news
Il referendum del 23 giugno 2016 si è concluso con un voto favorevole al Leave con il 52% delle preferenze di coloro che si sono recati alle urne. Il Regno Unito è ufficialmente uscito dall’Unione europea il 31 Gennaio 2020. Questo evento ha segnato una spaccatura, non solo a livello internazionale, ma anche interno, sia tra le diverse generazioni che tra le diverse nazioni che compongono il Regno Unito.
Le fake news messe in piedi durante la campagna per il referendum funzionavano bene perché per il cittadino medio è difficile avere accesso alle informazioni verificate, a causa di mancanza di tempo, educazione, media literacy skills o motivazione. Le false informazioni dunque circolano indisturbate, alimentate da attori politici, potenze straniere anti-democratiche, e media in cerca di clickbait, ossia l’uso di titoli sensazionalistici e accattivanti per invitare gli utenti a cliccare sul contenuto.
Nel caso della campagna Brexit, anche quando circolavano delle notizie false negative sull’Unione europea, seppur infondate o ingigantite, raggiungevano comunque un grande pubblico ed erano in grado di modificarne l’opinione, proprio perché affondavano le proprie radici nei sentimenti nazionalisti e anti-europei a lungo covati dai cittadini britannici.
Proprio qui è sita la forza e la pericolosità della disinformazione: le fake news da sole non cambiano le sorti di un referendum, è il fatto che le persone sono predisposte ad accettare informazioni che rafforzano le proprie ideologie, anche dopo aver saputo che sono inaccurate o non vere. Questo alimenta la polarizzazione dell’opinione pubblica, che sta spaccando le democrazie.
*Immagine di copertina: [PROMPT project logo via The European Narrative Observatory/PROMPT]





