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Costruttiva o divisiva? La politica dell’identità al riesame

Tempo di lettura stimato: 5 min.

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Che cosa accomuna il suprematismo bianco e il movimento per i diritti civili, gli attivisti di Black Lives Matter e quelli di Me Too, o ancora le femministe e la comunità LGBTQ, i sessisti e gli islamofobi? La risposta la si trova in un’espressione inglese: identity politics, traducibile letteralmente come politica dell’identità. In altre parole, sono tutti modi di fare politica che si richiamano a un concetto, il proprio concetto, di identità. Una tendenza che di fatto, per natura dell’uomo, è sempre esistita, ma su cui recentemente è emersa una più attenta riflessione. Ma di cosa stiamo parlando esattamente?

L’identity politics scompagina i classici schieramenti di destra e sinistra e può potenzialmente assumere infinite sfaccettature. Tante quante sono le identità in cui le persone possono riconoscersi. Volendo essere più formali, è ideale scindere la definizione di identity politics in due parti. Innanzitutto, con quest’espressione ci si riferisce a un concetto di politica in cui gruppi creatisi attorno a una specifica identità etnica, religiosa, sociale, culturale o di genere formano un’alleanza politica esclusiva, volta a promuovere gli interessi propri del gruppo. La solidarietà d’insieme si rafforza soprattutto quando si presenta una minaccia. Ecco quindi che l’identity politics coinvolge in primis i gruppi più marginalizzati o che si sentono in pericolo, e i cui membri, invece di accettare gli stereotipi che la cultura dominante gli affibbia, si raccolgono attorno alla loro comune identità per chiedere più diritti in nome della stessa e promuovere una presa di coscienza nella società circostante. Un esempio lampante in questo senso ce l’ha offerto negli ultimi anni la comunità LGBTQ, impegnata ad esempio nel sollecitare la legalizzazione del matrimonio per le coppie omosessuali.

Fin qui, non sembrerebbe certo che l’identity politics necessiti di qualche ripensamento. E anzi, se fosse il nostro gruppo a essere discriminato, ricorrere alla politica dell’identità costituirebbe una reazione comprensibile. Del resto poi, la politica la si fa attorno a qualsiasi tipo di divisione, dunque non sorprende che qualcuno orienti il dibattito verso questioni di etnia, genere, religione, orientamento sessuale. Come mai allora sempre più detrattori definiscono l’identity politics divisiva?

Il diavolo è nei dettagli

Facciamo un passo indietro e torniamo alla definizione che abbiamo lasciato in sospeso. La politica dell’identità infatti è sempre più frequentemente caratterizzata da una seconda dimensione: spesse volte essa avanza sì gli interessi di un gruppo, ma lo fa senza alcuna considerazione per quelli di altri gruppi. Un esempio su tutti: la politica indiana, dove il nazionalismo induista promosso dal Primo Ministro Narendra Modi si traduce in politiche anti-musulmane, come il divieto di macellazione della mucca, animale sacro agli induisti ma molto importante per la comunità islamica impegnata nella lavorazione delle pelli. Ma si pensi anche al conflitto israelo-palestinese: entrambe le parti sono così trincerate nelle rispettive identità religiose e nel proprio vittimismo che la pace resterà un miraggio finché entrambe non sapranno trascendere da essi.

Ed ecco la trappola: l’identity politics diventa pericolosa quando oltrepassa i confini di una discussione politica critica in nome di un’identità che talvolta è persino solo apparentemente comune. Insomma, non è tanto l’oggetto della politica dell’identità, quanto piuttosto il modo in cui esso viene presentato che a volte la rende discutibile. Si potrebbe quasi affermare che ci sono due modi di fare identity politics, uno auspicabile e uno al contrario alquanto deprecabile.

Partendo dal secondo, esso assume la forma di uno scontro tra gruppi, che vede persone legate da una comune identità e da una simile esperienza di ingiustizia unite contro tutte le altre. Prendendo questa piega, la politica non riguarda più ciò che uno pensa, ma ciò che uno è o a quale gruppo appartiene. Ogni discussione può trasformarsi in un affronto alla persona stessa. Di conseguenza, come vari sondaggi hanno dimostrato, sempre più frequentemente le divergenze politiche creano un divario tra gli individui in quanto a relazioni personali. È ciò che sta avvenendo ora negli Stati Uniti ad esempio, dove non di rado i rapporti umani sembrano essere ostacolati dalle differenze in termini di religione ed etnia. Nel cercare persone che ci assomiglino invece che associarci a persone che condividono i nostri valori e confrontarci in maniera proficua con quelle a cui si è meno affini, si corre il rischio di mettere da parte il dibattito politico razionale e costruttivo poiché si comincia a dare per scontato che solo gli appartenenti a un certo gruppo sociale, il nostro, siano davvero capaci di comprendere le nostre richieste di giustizia.

Ma c’è di più. L’identity politics si richiama a un tipo di essenzialismo, la comune identità, che ignora completamente l’eterogeneità del gruppo e l’unicità del singolo, rafforzando gli stereotipi e la conseguente necessità di affermare la propria ostilità e supremazia nei confronti del diverso, cioè degli altri gruppi. È proprio in questo modo che si pianta il seme dell’estremismo. Ecco quindi che, in questa sua rinnovata gioventù, il suprematismo bianco dà voce a coloro che, in seguito alla globalizzazione e ai relativi cambiamenti demografici, non si sentono più sicuri di possedere la più grande fetta delle risorse economiche e della scena politica, e con essa la supremazia culturale.

Tutto perduto?

Una strada da seguire c’è. È quella che ha tracciato, ad esempio, il movimento per i diritti civili americano e che ben esemplificano le parole di Martin Luther King. Recitava così il più famoso discorso del pastore premio Nobel per la pace: “Io ho un sogno, che i miei quattro figli piccoli vivano un giorno in una nazione nella quale non saranno giudicati per il colore della loro pelle, ma per le qualità del loro carattere.” Parole che invitano ad abbattere il muro dell’identità, per vedere le persone come individui invece che membri di un gruppo. Forse quindi lo scopo della politica dell’identità dovrebbe essere quello di promuovere i diritti e le opportunità del gruppo che di volta in volta rappresenta, superando però il suo stesso concetto di identità, e appellandosi piuttosto a un gruppo ben più ampio, quello dell’umanità intera e della sua empatia. Ciò serve a sottolineare che opportunità e diritti devono essere garantiti non perché un gruppo, come tale, li richiede, ma perché essi dovrebbero accomunare tutti gli uomini.

È forse ora di smettere di rappresentare la politica come un gioco a somma zero, dove chi guadagna lo fa a discapito di chi perde. La sfida è quella di far emergere il lato più inclusivo della politica dell’identità. È così che tutti, insieme, possiamo crescere.

Rebecca Cambrini
Nata a Pesaro, porto con me anche un po' di Sydney mentre frequento il terzo anno di Scienze Politiche all’Università Bocconi. Due cose non possono mancare nella mia vita: il mare e un occhio critico sul mondo.

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